Ibm Watson: il cognitive computing è per il business

Investimento da un miliardo di dollari e sede dedicata. I big data sono il punto di partenza verso uno scenario da creare insieme ai partner e di cui, ovviamente, il cloud ne è parte.

Intenta a dare senso a un volume di dati totali, che la sola Idc stima raggiungerà i 35mila exabyte entro il 2020 superando di ben 29 volte i 1.200 exabyte generati nel 2010, Ibm ha preso casa a Watson aprendo definitivamente al business il proprio sistema di cognitive computing.

Con un investimento pari a un miliardo di dollari, 100 milioni dei quali per sostenere lo sviluppo di un ecosistema di imprenditori e partner, Big Blue ha inaugurato una nuova divisione dedicata allo sviluppo e alla commercializzazione di servizi e applicazioni per le aziende basati sui sistemi di intelligenza artificiale.

Uscita dalla “pancia” di Ibm dai primi di gennaio, la nuova unità, denominata Watson Business Group, ha i propri uffici a Manhattan, nella Silicon Alley posizionata nell’East Village di New York (nella foto), all’interno dei quali sono stati fatti confluire 2mila specialisti.

Le potenzialità del Sistema Watson sono state illustrate presso la sede Eni di San Donato Milanese, con un evento dedicato.

Obiettivo: digitalizzare la realtà che ci circonda rendendo fruibile il patrimonio dei Big data attraverso un processo di cognitive computing in grado di interpretare le informazioni applicando diversi livelli di complessità.

«Gli stessi che, nel caso del sistema Watson – spiega Pietro Leo, executive architect e data scientist in Ibm – sono stati applicati a partire dal testo per poi approdare alle immagini, passando da un’informatica “programmabile” a un approccio cognitivo in grado di comprendere, supportare decisioni e fornire ipotesi di ragionamento».

Raccolta e vinta, tra il 2006 e il 2007, la Grand Challenge della comprensione del linguaggio naturale mettendosi in competizione con l’uomo attraverso la partecipazione a Jeopardy!, noto quiz televisivo statunitense in cui gli indizi del gioco prevedono l’analisi di sottigliezze di significato, doppi sensi, ironia, enigmi e altri tipi di complessità, ora l’attenzione di Watson è rivolta a ben altro.


Verso un processo di industrializzazione “forte”

«Oggi la Grand Challenge – continua Leo, anche in qualità di responsabile tecnico delle soluzioni Big data analytics e Content analytics di Ibm – è rappresentata dall’applicazione della tecnologia Watson per supportare i processi decisionali in ambito medico, per esempio nella diagnosi differenziale, o in quello finanziario o degli advisor in generale, al fine di sistematizzare, in modo industriale, il patrimonio computazionale dell’Ibm Watson Family».

Piattaforma nel cloud
Da qui l’idea di rendere disponibile la propria tecnologia, sotto forma di piattaforma di sviluppo nel cloud, per consentire alla comunità mondiale di fornitori di applicazioni software di creare una nuova generazione di app capaci di trasformare il modo in cui imprese e consumatorio prendono le proprie decisioni basandosi sull’intelligenza cognitiva di Watson.

Il luogo deputato alla condivisione sarà l’Ibm Watson Developers Cloud, un marketplace ospitato sulla nuvola, in cui i fornitori di applicazioni di tutte le dimensioni e di tutti i settori potranno attingere a risorse per sviluppare app alimentate dal sistema, che deve il proprio nome al primo presidente di Ibm, Thomas J. Watson.

«Tornando alle applicazioni industriali va detto, poi – continua Leo –, che il supporto decisionale in ambito sanitario non è solo a beneficio della categoria medica, ma anche al ricercatore che deve districarsi nella letteratura scientifica o all’assicuratore chiamato a valutare la congruità dei trattamenti somministrati a un paziente che richiede un certo tipo di rimborso da analizzarsi in base alla pertinenza e al singolo caso clinico».

Non solo, però.
Perché se in ambito medicale l’obiettivo è generare ipotesi di diagnosi arricchite da un continuo aggiornamento della letteratura scientifica a supporto, in quello finanziario il cognitive computing «non si manifesta – dettaglia Leo – nel fornire supporto decisionale a chi è chiamato a suggerire il prodotto più efficace a portafoglio, bensì nel comprendere a tal punto il linguaggio naturale del cliente che mi sta di fronte da ingaggiarlo in modo sostanzialmente colloquiale».

Un approccio che non può non suscitare l’interesse di call e contact center evoluti ma che, entro la fine di quest’anno, Ibm ha tutta l’intenzione di estendere ben oltre «aprendo il cognitive computing di Watson ai singoli cittadini».

D’altro canto, come sottolineato da Roberto Sicconi, entrato nel 2000 nel team Natural Language Technologies al centro di ricerca Ibm T.J. Watson a Yorktown per guidare lo sviluppo di prototipi sperimentali di interfacce utente in grado di gestire conversazioni e multimodalità su smartphone e altri dispositivi consumer: «Con Watson stiamo cercando di creare un esperto virtuale che, messo a disposizione dell’utente, sia in grado di spostare sulla macchina il grosso del lavoro di elaborazione dei dati ed estrapolazione delle informazioni per renderle il più usufruibili possibile, certi che dell’elevato livello di pertinenza fornito».

Un processo lungo e laborioso al quale Big Blue è giunta puntando soprattutto sull’integrazione delle conoscenze e delle tecnologie sviluppate nel passato «inventando – come sottolineato da Alfio Gliozzo, ricercatore e technical leader presso Ibm T.J. Watson – una soluzione interoperabile e capace, oltre che di comprendere il linguaggio, anche l’universo che la circonda».

Niente di più utile in un contesto odierno in cui la complessità dei big data contiene in sé la promessa di un patrimonio informativo il cui valore è, però, nullo senza strumenti efficaci per penetrare la complessità estraendo le informazioni necessarie per generare una vera conoscenza di dominio.

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