Internet of things: una visione italiana

Convergenza, ultimo miglio, Ipv6, cloud: nell’Internet delle cose c’è dentro tutto, anche l’azienda. Però non serve metterci tutti gli oggetti. Sciogliamo i dubbi con Luigi Cicchese, Partner di Reply.

Reply sta realizzando una piattaforma che punta ad abilitare i servizi di Internet degli oggetti e di cloud privato in un’unica architettura.
Basterebbe questa stringata notizia per capire quanto la tematica dell’automazione delle comunicazioni dati sarà dominante nel futuro.

Per chirire cosa si debba intendere con Internet of things, ma soprattutto come questa tendenza influirà sulle aziende, ne abbiamo parlato con Luigi Cicchese di Reply.

Guardiamo l’Internet delle cose da dentro le mura del business. A quali aziende serve?

L’uso dell’Internet degli oggetti serve alle aziende che vogliono rendere più efficiente il loro sistema produttivo, migliorare le funzioni operative aziendali, senza dimenticare il tema più green, ovvero il fatto che l’utilizzo dell’Internet degli oggetti può incidere fortemente sul risparmio energetico e sulla consapevolezza interna relativa ai consumi.
Laddove, come nel caso di aziende che si occupano di produzione su larga scala, le macchine sono già utilizzate per rendere efficiente il sistema produttivo, l’Internet degli oggetti può portare miglioramenti su molti dei processi aziendali, migliorandone la qualità ed efficienza. Ad esempio, l’intelligenza che viene messa all’interno delle macchine distributrici di bevande o cibo, aiuta non solo ad ottimizzare la logistica dei rifornimenti, ma anche, poiché le macchine sono connesse sia con la centrale che tra loro, ad offrire servizi a valore aggiunto all’utente finale, informandolo, per esempio, della disponibilità presso un’altra postazione del bene che sta cercando.
Relativamente al tema “green”, l’uso di smart metering consente l’accesso ai dati dei consumi in tempo reale, consentendo una migliore pianificazione dell’utilizzo delle risorse energetiche (acqua, luce, gas, pannelli solari o fotovoltaici). Infine, non va dimenticato che l’Internet degli oggetti apre molte opportunità per le aziende in grado di sviluppare, gestire e fornire servizi basati sulla fonte di dati generata dagli oggetti stessi e distribuiti sul territorio.

E che rete serve fare?

Innanzi tutto è utile chiarire un aspetto importante: creare una rete per l’Internet degli oggetti non significa mettere tutti gli oggetti su internet, bensì una infrastruttura attraverso la quale gli oggetti possono scambiare informazioni.
Questa precisazione è tanto più opportuna quanto più si pensa che oggi gli indirizzi internet stanno finendo e che è dunque impossibile poter mettere sulla rete tutti gli oggetti che necessitano di un indirizzo e che, negli ultimi anni, si sono moltiplicati, basti pensare al numero di smartphone attivi o alla nuova generazione di Tv.
La soluzione a questo problema ce lo fornisce il nuovo standard di riferimento per l’evoluzione di internet: l’IpV6, una evoluzione di IpV4 che consente un indirizzamento 4 volte superiore a quello della versione precedente; una evoluzione non da poco se si pensa che questo nuovo standard è in grado di gestire indirizzi in numero di 2 elevato alla 128.
Ma poiché gli oggetti che si mettono in rete non sono tutti omologhi, anzi possono avere diverse potenze di calcolo (per intenderci anche di molto inferiore a quelle di un pc, come ad esempio i sensori di tipo biometrico), il gruppo di lavoro 6LoWpwan (IpV6 su Low Power Area Network) ha specificato un adattamento dell’IpV6 su reti che mettono in connessione tra loro più oggetti non omologhi, con differenti potenze di calcolo e, soprattutto, con consumi energetici molto ridotti.
L’utilizzo di questi standard consentirà dunque di costruire la rete pervasiva di oggetti su cui l’internet degli oggetti si fonda.

A chi spetta la gestione? Al Cio o a un insieme concorsuale di figure?

Così come per i servizi internet, la gestione delle reti tra oggetti non riguarderà un unico attore. Sicuramente al Cio spetterà la gestione dell’Internet degli Oggetti all’interno della sua organizzazione, mentre, molto probabilmente, altre figure forniranno e supporteranno la qualità del servizio offerto.

Con l’Internet delle cose appare il concetto di ultimo miglio per i servizi di rete?

La problematica dell’ultimo miglio ha sempre accompagnato i dibattiti intorno allo sviluppo di Internet in Italia; secondo alcuni, tale problematica si potrà superare quando ci sarà una diffusione della banda larga più capillare rispetto a quella attuale e una banda larga di tipo wireless.
Anche per quanto riguarda l’Internet degli oggetti, il modello sarà lo stesso. Laddove l’accesso alla rete dati o internet è wireless, questo sarà gestito tramite operatori tradizionali che la renderanno disponibile tramite loro sim e che avranno un ruolo, di fatto, di service provider; altri operatori invece, come su internet, si preoccuperanno di aggregare i servizi che, nell’Internet degli oggetti, potranno anche essere costituiti da una vera e propria macchina. Le macchine poi, interagendo tra loro, potranno fornire servizi più complessi.

E che rapporto ha con il cloud?

Il cloud e l’Internet degli oggetti sono strettamente correlati tra loro, anzi, a nostro avviso il cloud è parte integrante della soluzione. Se guardiamo l’evoluzione del web, nell’era 1.0 si gestivano dei dati che non risiedevano fisicamente dove questi venivano prodotti; nell’era del Web 2.0 si utilizzano software e servizi (ad esempio i servizi di Google) da remoto, ma l’hardware viene gestito principalmente in locale; con il web 3.0 anche l’hardware si allontana e io posso usufruire di servizi che si basano su altrettante macchine lontane da me.
Il fatto di avere le macchine in un cloud consente di distribuire l’intelligenza delle macchine stesse e permette agli oggetti, accedendo alla rete, di erogare servizi più complessi.

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