Private equity: ecco quali opportunità per le Pmi

Dall’Associazione italiana del private equity e venture capital Aifi un utile glossario per comprendere quali opportunità di investimento si stagliano all’orizzonte per le piccole e medie realtà di casa nostra in attesa del regolamento Comunitario.

Imprenditori in cerca di capitali? Il private equity può far per voi.
Stilato da Aifi, l’Associazione italiana del private equity e venture capital, presente sul mercato dal 1986, un utile e ricco glossario di terminologia “tecnica” è al servizio delle piccole e medie imprese di casa nostra per allargare orizzonti osteggiati dalla crisi economica in atto.

Si parte allora dal termine anglosassone che identifica “l’attività dei fondi che investono in capitale di rischio per supportare la crescita delle imprese non quotate” e i cui fondi “intervengono con un orizzonte temporale che mediamente è di 4-5 anni per permettere all’impresa di svilupparsi e realizzare gli obiettivi di crescita prefissati nel suo piano strategico”.

Un piano strategico che, nel caso del private equity, pare destinato ad apportare “benefici al sistema imprenditoriale nei diversi settori dell’economia italiana sostenendone lo sviluppo, creando nuovi posti di lavoro e mantenendo e rafforzando i legami delle imprese con il tessuto sociale di riferimento”.
Ma non solo.

Oltre a fornire capitali, la mission degli operatori così definiti è “condividere network internazionali, nuovi punti di vista, esperienza manageriale e operativa, facilitando i rapporti con gli istituti di credito e ponendo grande attenzione allo sviluppo sostenibile di lungo termine e alla continua creazione di valore”.

Tipologie di investimento per fasi di sviluppo
Fin qui tutto bene. Ma c’è impresa e impresa e anche di questo bisogna tener conto.
Non stupisce, allora, che le tre tipologie di investimento previste dal private equity riguardino “fase di avvio”, “sviluppo” e “cambiamento”.

Nella prima rientrano le idee imprenditoriali in germoglio, le cosiddette seed o startup di cui tanto si parla. Qui gli investimenti non possono che riguardare le prime fasi di vita dell’impresa finalizzate all’avvio dell’attività, “quando è ancora da dimostrare la validità tecnica e commerciale del prodotto o del servizio che si intendono offrire sul mercato”.

Nella seconda tipologia si concentrano, invece, gli investimenti indirizzati alle aziende che desiderano espandersi geograficamente o merceologicamente per crescere nel proprio mercato di riferimento, magari con un occhio a quell’internazionalizzazione che, quando portata a compimento nel momento più opportuno, rappresenta la svolta a fronte, però, di “investimenti in capitale di rischio realizzati attraverso un aumento di capitale”.

Di “replacement”, “buy out” e “turnaround” si parla, infine, quando l’azienda che si rivolge a un fondo di private equity vuole riorganizzare la propria compagine societaria, acquisirla in forma diversa o ristrutturarla.
Nello specifico, stando a quanto riportato nel glossario Aifi, “il replacement è un investimento finalizzato alla riorganizzazione di un’impresa, in cui l’investitore nel capitale di rischio si sostituisce, temporaneamente, a uno o più soci non più interessati a proseguire l’attività”, “le operazioni di buy out sono dirette all’acquisizione di un’impresa mediante il ricorso prevalente al capitale di debito, che verrà per lo più rimborsato con l’utilizzo dei flussi di cassa positivi generati dall’impresa” e “il turnaround comprende le operazioni con le quali un investitore nel capitale di rischio acquisisce un’impresa in dissesto finanziario per renderla nuovamente profittevole”.

Ciò detto e per correttezza di termini, è consuetudine incorrere nel termine venture capital solo per definire le operazioni di avvio o early stage, “in cui il soggetto che richiede l’investimento necessita, oltre a un contributo in termini di capitali, di un forte aiuto nella definizione della formula imprenditoriale e nella riflessione sulla propria posizione competitiva”.

A sua volta, con il termine business angel si è soliti identificare “un investitore privato informale, tipicamente una persona fisica, che apporta capitale di rischio a piccole imprese in fase di avvio e primo sviluppo. La sua natura informale è dovuta al fatto che il suo intervento non trova canalizzazione in un mercato regolamentato o attraverso un intermediario riconosciuto ma nasce spontaneamente sulla base della fiducia e della convenienza e dell’apprezzamento reciproco tra investitore e imprenditore”.

AAA investitori istituzionali italiani cercasi
Va da sé, però, che non di “buoni samaritani” pronti a correre in aiuto delle Pmi senza un preciso tornaconto si sta parlando.
Quella evidenziata da Alessandra Bechi, in qualità di direttore ufficio Tax & Legal e Affari Istituzionali dell’Associazione che raduna 130 investitori istituzionali di medio-lungo periodo è, infatti, la fotografia di “molti fondi italiani operativi soprattutto nelle fasi di avvio e sviluppo, qualche fondo estero paneuropeo impegnato, in primis, nelle operazioni di management buy out e di investment company, che si interessano soprattutto di startup e seed”.

Di loro si occupa Aifi con un tavolo tecnico evolutosi negli anni e all’interno del quale rientrano anche i business angel presenti sul panorama italiano, “di solito ex imprenditori, manager in attività o in pensione, ma anche liberi professionisti dotati di un patrimonio personale e in grado di offrire all’impresa in fase di startup non solo capitali ma anche competenze gestionali, conoscenze tecnico-operative e una consolidata e diffusa rete di relazioni con il mondo economico-finanziario”.

Da noi il problema è, però, un altro e racconta di “operatori indipendenti che non hanno alle spalle istituzioni bancarie pronte e investire anche in mancanza di risultati di rendimento certi”.
Ancora una volta servono “storie di successo” od operazioni che diano rendimenti tali al fondo da risultare allettanti per altri fondi di investimento.
Insomma a scatola chiusa non si compra.

Serve che a investire sia il Pubblico
Come in Francia o in Israele, quel che servirebbe anche in Italia, sarebbe la costituzione di un fondo di fondi da parte del Pubblico che, “erogando soldi ai privati non gratuitamente “a pioggia”, ma utilizzando opportuni strumenti di mercato, sarebbe in grado – sottolinea Bechi – di attrarre nuovi investitori dialogando in maniera più competente anche con i referenti del Fondo europeo di investimento”.
Ma tant’è. Nell’ultimo Libro Bianco per lo Sviluppo del Venture Capital in Italia redatto da Aifi ancora nel 2011 l’accento confermato nel Decreto Crescita-bis (Legge 179/2012) è sugli incentivi “per gli investitori che investono denaro nei nostri Fondi”.
A piacere è soprattutto l’introduzione, all’Art. 29, “di incentivi sotto forma di agevolazioni fiscali per l’investimento in startup innovative da parte di persone fisiche e giuridiche. Di particolare rilievo, per il settore del venture capital, è la possibilità di usufruire dell’incentivo anche qualora l’investimento sia effettuato in via indiretta, tramite Oicr e società di investimento”.

Ancora una volta, nel nostro Paese, il problema non è la Legge ma il Decreto attuattivo che permette di metterla in pratica. “Servono, inoltre, veicoli societari snelli che rendano conveniente la creazione di un fondo per sostenere una certa tipologia di investimento e qui – è l’augurio condiviso – il regolamento sui venture capital in fase di approvazione a livello Comunitario potrebbe essere d’aiuto per supportare realmente lo sviluppo delle piccole e medie imprese di tutta Europa”.

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