L’It consumerization condiziona l’impresa

In azienda esiste un gap tra offerta di tecnologie e domanda di nuovi device, specialmente da parte delle generazioni di lavoratori under 30. Il problema va affrontato, per non perdere competitività

I giovani sono una risorsa, una fonte inesauribile di creatività e di nuove idee.

La teoria è giusta, ma che succede quando si scontra con la pratica e quando un “digital native”(così chiamate da Gartner le persone nate dopo gli anni 80) o un membro della Net generation entra nel mondo del lavoro e si trova in un contesto ben diverso da quello che si aspettava, almeno da un punto di vista dell’utilizzo a livello business di dispositivi informatici che normalmente usa nella vita quotidiana? Dopo la delusione iniziale (d’altronde non è un segreto che in Italia si investe poco in Ict), comincia a lavorare (male) con quel poco che ha: un desktop e, nella migliore delle ipotesi, con un cellulare o un laptop aziendale. Tutto il resto magari lo fa con quello che ha a casa sia a livello di software che di hardware. Risultato: lavora forse meglio ma l’azienda non lo sa e forse non lo vuol neanche sapere.


E i rischi? Tanti, in fatto di vulnerabilità del sistema aziendale e della sicurezza dei dati sensibili. Molte aziende produttrici di hardware e software si stanno dando da fare con strumenti ad hoc per limitare i danni, ma il vero problema è sul fronte aziende utenti che non sanno sfruttare gli input che vengono dal basso e che spesso non hanno neanche la percezione del gap tra la domanda tecnologica dei neo-assunti e l’offerta delle imprese. Ma qual è la situazione nel nostro paese, quali i rimedi e quali soprattutto le prospettive? «Le aziende italiane – afferma Gianni Redaelli, Strategic Partnership manager del Cefriel – sono molto indietro nell’integrazione degli strumenti informatici evoluti che accrescono la produttività dei lavoratori, specialmente dei giovani neo-assunti, che si trovano a dover limitare la loro grande capacità innata di sintesi delle informazioni a causa dell’impreparazione delle aziende, Pmi in particolare, ad accogliere le loro richieste»


Favorire il cambiamento


Non è detto che l’apertura totale sia comunque positiva. «Occorre filtrare e selezionare le funzionalità accessibili, a seconda del ruolo ricoperto da ogni dipendente – prosegue Redaelli -. La dote che la nuova generazione ha è quella della sintesi, qualità che sarà il vero valore aggiunto delle aziende che vogliono rimanere sul mercato, a patto che dispongano delle tecnologie per saperla sfruttare. È un elemento fondamentale in un’epoca in cui i ritmi sono accelerati, in cui le informazioni affluiscono senza limiti né di tempo né di spazio. Se le aziende non si adeguano a questi cambiamenti si creerà un digital divide enorme anche all’interno del nostro paese, tra aziende che dispongono di dipendenti giovani e quelle che invece hanno una forza lavoro più anziana».


Un fenomeno molto evidente anche a livello internazionale tra la stessa Italia e i paesi emergenti, dove l’età media della popolazione attiva è più bassa, dove non ci sono troppe distrazioni e la mancanza di benessere spinge a lavorare un numero di ore giornaliere nettamente più alto rispetto a noi occidentali. I motori di ricerca sono sempre più veloci, sempre più ricchi di dati e sempre disponibili e anche i device mobili portano la possibilità di lavorare senza confini geografici.


«L’unico limite – osserva il nostro interlocutore – sarà a breve l’individuo stesso, con le sue implicazioni caratteriali e il contesto socio-economico in cui vive. I digital native favoriranno l’accelerazione al cambiamento e faranno la differenza nel panorama competitivo. Una differenza che per ora è a vantaggio di paesi come Cina e India dove, a parità di disponibilità di informazioni, si lavorano 14-15 ore al giorno e dove le persone, i giovani in particolare, hanno voglia di apprendere velocemente. In Italia stiamo perdendo il treno perché chi comanda in azienda è poco incline alla condivisione delle informazioni e tende a centralizzare il controllo. Invece, dal basso arriva una domanda di partecipazione molto forte, che si concretizza anche nell’uso di strumenti tecnologici collaborativi come blog aziendali, siti su tecnologia Web 2.0, contenuti multimediali e instant messaging. Purtroppo la classe decisionale vede questi mezzi non come una strada per migliorare l’azienda, il modo di lavorare sia internamente che con i partner, i clienti e i fornitori ma come una minaccia. Non hanno ancora capito l’importanza dell’ascoltare e di mettere insieme più opinioni. Alla fine, le decisioni restano appannaggio del management, ma sicuramente si tratterebbe di decisioni nettamente più efficaci di quelle prese come provvedimenti imposti o astratti».

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