Le Pmi che innovano? Più medie che piccole e attive nel manifatturiero

Nell’indagine sulle tendenze innovative promossa da Ls Lexjus Sinacta, le piccole e medie realtà nostrane innovano e lo fanno in maniera sempre più trasversale e integrata. Ma manca ancora una seria cultura a investire in capitale umano.

È una “spiccata” attitudine a innovare “in maniera sempre più trasversale e integrata” quella messa in luce dall’indagine “Le tendenze innovative della piccola e media imprenditoria italiana”.

Presentata in occasione di Focus Pmi 2014, l’Osservatorio Annuale sulle Piccole e Medie Imprese di casa nostra promosso dallo studio legale e tributario Ls Lexjus Sinacta, la ricerca condotta dall’Istituto Guglielmo Tagliacarne nel corso di tutto il 2013 su un campione di 1.150 aziende ha, inoltre, evidenziato come l’innovazione sia decisiva per la competitività internazionale delle Pmi tricolore.

Peccato, è l’ulteriore puntualizzazione, che un’impresa su quattro di quelle esaminate non risulti pienamente consapevole della propria capacità di innovazione. Un potenziale inespresso che sarebbe, invece, meglio far emergere per favorire la crescita sui mercati internazionali.

Una volta tanto non siamo “fanalino di coda
A differenza delle altre economie europee, dove il contributo delle grandi aziende risulta preponderante, in Italia ben 7,8 dei 15,9 miliardi di euro spesi in innovazione dal totale delle imprese nostrane risulta a carico delle Pmi.

Un dato ancor più rilevante se confrontato con la sola Germania, dove le piccole e medie imprese investono in innovazione 9,3 miliardi di euro su un totale di (ben) 70 miliardi.

Inoltre, da noi a innovare sarebbe il 56,3% delle imprese, rispetto a una media dell’Unione Europea dei 27 di poco inferiore al 53 per cento.
A farlo di più e in maniera trasversale e integrata, ossia senza limitarsi ai beni e servizi prodotti ma spingendosi oltre le attività realizzate, fino alle politiche di sviluppo, sarebbero soprattutto le Pmi di dimensioni maggiori e a vocazione manifatturiera.

E non solo loro.

Nel triennio 2010-2013, in ben il 57% dei casi, a introdurre innovazioni in maniera più frequente sarebbero, infatti, state le aziende della meccanica, dell’elettronica e dell’automotive seguite, a sorpresa, dall’alimentare (56,7%).

Com’è logico supporre, le Pmi più innovative, ossia il 16% sul totale del campione analizzato, hanno registrato una crescita maggiore, sia in termini di fatturato che di occupazione, e dimostrato una maggiore propensione a operare in sinergia con altre aziende, entrando a far parte di veri e propri network.


Manca ancora uno strutturato investimento in capitale umano

Ciò detto, in Italia le aziende con bassa propensione a innovare sono ancora il 25% del totale, mentre l’investimento in capitale umano su cui puntare per i processi di innovazione non è ancora sufficientemente considerato nel nostro Paese, visto che l’80% delle nostre aziende assume al massimo il 9% di personale di alto profilo.

Tuttavia, il rapporto condotto dall’Istituto Tagliacarne ha anche evidenziato come un’impresa su 7 tra quelle che si sono dichiarate meno innovative (pari al 31% del campione totale) ha, di fatto, introdotto al proprio interno innovazioni significative utili a spostarsi verso aree di mercato in grado di offrire maggiori opportunità.

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