La moda italiana può stare a galla nei paesi emergenti

Secondo Paolo Zegna, il settore deve orientare la bussola verso Est e Sud; d’esempio anche la Cina con i suoi interventi a sostegno delle imprese

L’industria tessile italiana dorme sonni agitati. La nave mostra diverse falle: il calo dell’export e del fatturato, il ristagno dei consumi, i finanziamenti bancari che sgusciano via come anguille, intimorite dalle fosche prospettive all’orizzonte. Vien da chiedersi come governare la barca e tener dritto il timone. Il recente convegno a Milano di Sistema Moda Italia sui percorsi dell’internazionalizzazione, ha fornito le coordinate di rotta per evitare un triangolo delle Bermude.

Bussola puntata su Russia e Brasile
I mercati emergenti: ecco la direzione su cui orientare la bussola secondo Paolo Zegna, vice presidente per l’internazionalizzazione di Confindustria. I dati confermano lo speciale magnetismo dell’Est e del Sud: l’export italiano del tessile-moda è cresciuto del 15% verso Russia e Polonia e addirittura del 35% verso il Brasile, da gennaio a ottobre 2008 rispetto allo stesso periodo del 2007. Dal 1995 al 2008, invece, Giappone e Germania hanno quasi dimezzato il loro peso. Il mercato tedesco, che 14 anni fa valeva oltre cinque miliardi di euro, nel 2008 è sceso a 2 miliardi e 693 milioni; il Giappone è passato da 1,567 miliardi a 884 milioni. Di contro, la Russia è balzata nell’iperspazio da 138 milioni a 1,751 miliardi (+1166%); in crescita pure il mercato spagnolo (+110,9%) e quello cinese più Hong Kong (+72,9%).

I prossimi mesi si annunciano burrascosi. «Ci attendiamo un proseguire del calo dei consumi negli Stati Uniti e nei paesi europei e un rallentamento della crescita nei paesi emergenti», ha spiegato Gregorio De Felice, responsabile del Centro studi e ricerche di Intesa Sanpaolo. «Con qualche preoccupazione in più per la Russia, diventata negli ultimi anni il traino delle vendite di moda italiana». Il settore, però, è uscito da una fase di ristrutturazione che, secondo De Felice, consentirà di reggere l’urto delle onde. La scomparsa delle aziende più deboli, il rafforzamento delle filiere e della distribuzione, il potenziamento dell’offerta, hanno accresciuto la competitività del sistema.

La reazione cinese
Ora servirebbe più aiuto dalle banche e dal governo per attraversare la crisi. Anche un colosso come la Cina si sta riorganizzando. Per la prima volta in dieci anni, i profitti delle aziende cinesi del tessile sono diminuiti: la flessione è di quasi il due per cento nei primi 11 mesi del 2008 rispetto al 2007. Da gennaio a ottobre, le esportazioni del settore sono salite più dell’otto per cento, ma il tasso di crescita è sceso di 12 punti dall’anno precedente (in base ai dati della Federazione nazionale cinese del tessile). Così molte imprese stanno spostando il loro centro d’interesse sul mercato interno.

Pechino investirà diversi miliardi di dollari per soccorrere la produzione del tessile-moda: l’obiettivo è stimolare la domanda locale e innalzare la qualità e tecnologia dei prodotti, eliminando gli impianti obsoleti e inquinanti. Dal 2000 al 2006 i consumi delle famiglie cinesi per l’abbigliamento sono rimasti fermi al 10% del totale; nel 1990, la percentuale era del 13,6 per cento. Nel 2007, la spesa media pro capite per l’abbigliamento, era di 113 dollari per le famiglie di reddito medio basso; di 148 dollari per quelle di reddito medio e 186 per quelle di reddito medio alto (elaborazioni Smi su China statistical yearbook 2008). Da tutto ciò emerge la necessità, per la Cina, di espandere le vendite nei propri confini.

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