Dopo il primo storico accordo del G7 di Londra del 7 giugno, ora arriva il secondo, altrettanto storico perché decisivo, accordo del G20 di Venezia: la Global minimum corporate tax si farà.
Obiettivo della global tax sono le multinazionali tutte, e in particolare le cosiddette Big Tech, Amazon, Apple, Google, Facebook, Microsoft) presenti in tutti i paesi, ma con punti di riferimento in alcuni (come l’Irlanda o il Lussemburgo) la cui politica fiscale autonoma ha rappresentato, da sempre, un fattore di business.
L’accordo raggiunto al G20, già ribattezzato Patto di Venezia da Paolo Gentiloni (presente in qualità di Commissario europeo all’economia: per l’Italia, come nel primo round inglese ha partecipato il Ministro dell’Economia e finanze, Daniele Franco) si basa su due pilastri.
Il primo è l’imposizione fiscale sui profitti di multinazionali con fatturato superiore ai 20 miliardi di euro, nei paesi in cui operano, sulla base di un’aliquota minima del 15%.
Il secondo è un’aliquota fiscale minima per le società con almeno 750 milioni di fatturato.
Si prevede che la Global minimum tax così impostata (sulla soglia dei 20 miliardi di fatturato) possa generare un gettito nel primo anno di 150 miliardi di euro.
Cifra che dovrebbe via via aumentare con la revisione del meccanismo (nel 2030), con l’abbassamento della soglia di applicabilità alle multinazionali che generano fatturati di 10 miliardi di euro.
L’accordo deve percorrere ulteriori fasi di approvazione, a cominciare dal prossimo G20, quello del 30 e 31 ottobre di Roma (l’Italia ha la presidenza del G20, lo ricordiamo) in cui saranno stabiliti i dettagli tecnici, e poi, per parte nostra, nei consessi europei (Parlamento e Consiglio) dove dovrà conquistarsi il consenso dei Paesi non presenti al G20 e notoriamente ostili (Irlanda e Ungheria su tutti), per arrivare a essere applicabile erga omnes nel 2023.
La Global tax prevede anche un altro meccanismo, anti-elusione.
Abbinata alla misura globale del 15%, infatti, si applicherà l’imposizione di una tassa sul 20%-30% degli utili oltre la soglia del 10% del profitto, un importo da riallocare nei Paesi in cui le multinazionali effettuano le proprie vendite.
La genesi della global minimum tax
La prima proposta di Global minimum tax per le grandi aziende, lo ricordiamo, era uscita da un G7, quello di Londra di inizio giugno, dominato dalla personalità dell’ex presidente della Fed e nuova segretaria al Tesoro dell’amministrazione USA, Janet Yellen.
Da subito fu salutata positivamente dalle grandi cariche: un grande risultato tutt’altro che scontato per il Commissario europeo per l’economia Paolo Gentiloni e “un passo storico verso una maggiore equità fiscale“, per il presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi.
Il target più evidente dell’aliquota globale minima e di una tassa sui guadagni da reinvestire sul territorio, si è detto, sono le Big Tech, note per avere da sempre un rapporto vivace con i ministeri delle finanze, quantomeno dei paesi europei, nel senso sia delle condizioni avverse sia di quelle di favore.
Ma le Big Tech sanno che le multinazionali non sono solamente a quelle che producono tecnologia, in forma di software o servizi (cloud).
Vi sono anche quelle del comparto estrattivo e del pharma, tanto per citare due settori che hanno avuto e hanno un ruolo cardine nell’era della pandemia. Ma ci sono anche tutte quelle del comparto retail, dell’agricoltura e del food.
E’ un primo passo, ma mi sembra che le aliquote fiscali sulle aziende con sede in Italia siano molto superiori (anche se non ricordo l’aliquota). Avere la sede nel nostro paese continua quindi a penalizzare chi sceglie di avere la base da noi.