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Il software defined storage ha bisogno di essere open

Suse ha presentato la prima edizione della Software Defined Storage Research realizzata in collaborazione con LoudHouse, divisione di ricerca di Octopus Group.

La ricerca ha confermato il trend noto: le aziende hanno capito che i sistemi di storage tradizionali non sono adatti a fronteggiare il proliferare dei dati nell’epoca della digital transformation.

Più in particolare, l’85% delle aziende ha evidenziato come la flessibilità nell’approccio allo storage sia fondamentale per far fronte alla sfida digitale.

La ricerca di mercato indipendente è stata condotta da Loudhouse che ha intervistato oltre 1.200 responsabili IT di una vasta gamma di settori in 11 paesi. Tutti gli intervistati lavorano per aziende con più di 250 dipendenti. Più in particolare, il 56 per cento degli intervistati lavora per imprese con più di 1.000 dipendenti.

Infatti, nonostante solamente il 6% abbia già adottato soluzioni di tipo Software Defined in ambito storage, il 97% degli intervistati ha mostrato un grande interesse per questo tipo di soluzione.

Lo studio di Suse mostra che le aziende sentono la necessità di rivedere il loro approccio allo storage a causa di alcuni limiti dei sistemi di storage tradizionali quali il costo (88%) e la mancanza di scalabilità (75%), e di preoccupazioni relative alle loro prestazioni (73%). Proprio a causa di queste incognite il 93% delle aziende interpellate ha iniziato a pensare auna revisione del proprio approccio verso il Software Defined.

I principali benefici che deriverebbero dal passaggio al Software Defined Storage sono per il 51% degli intervistati l’aumento delle performance e per il 43% la facilitazione nello sviluppo e nell’implementazione del modern web, del mobile e dei big data service.

Intervista: Storage, perché il potenziale è alto

Per dare un senso a questi dati, che trasmettono un’attesa gigantesca nei confronti dello storage definito dal software, di proporzione inversa rispetto alle concrete azioni, ne abbiamo parlato con Gianni Sambiasi, Country manager di Suse Italia.

«Le esperienze di chi lo ha attuato sono nette nel presentare i benefici – ci dice Sambiasi -. I numeri sulle grandi aspettative raccontano che è nascosto un grande potenziale, che tutti dobbiamo portare allo scoperto».

Sotto la spinta della trasformazione digitale, però, qualcosa si farà. Va capito come e quando. «Cogliamo un segnale – dice Sambiasi – che è analogo quanto avvenuto con Linux, a livello di resistenza al cambiamento. Venti anni fa in azienda lo si metteva ai margini, ora si è affermato».

Il problema, allora, è lo status quo: «riguardo l’investimento in storage aziendale ormai vige un modello antiquato, basato sulla contrattazione sul prezzo di un dispositivo da aggiungere a quelli esistenti. Che poi si rivela essere un banale server x86».

C’è renitenza, quindi, e forse è da ambo le parti del fronte: offerta e domanda. Una situazione che pare insormontabile. Ma, osserva Sambiasi, «in passato gli ostacoli insormontabili sono stati superati. Io incontro molti clienti, che mi fanno capire che Linux lo hanno accettato, il concetto è passato. E er gestire via software lo storage noi proniamo un software opensource…».

Riguardo il concetto opensource, insomma, non ci siamo ancora: «si pensa sempre al software proprietario come la soluzione migliore.Alla fine ci troviamo sempre di fronte a una componente emotiva. Serve tempo».

Ma ci sono anche problemi di costo. «Sì, ma la negoziazione dei prezzi di storage – risponde Sambiasi – non potrà durare in eterno. Perché c’è la scalabilità: un concetto infinito, senza soluzione di continuità».

Oggi lo storage definito dal software viene proposto in tutto da una decina di aziende, osserva Sambiasi «e solamente due hanno una soluzione open, fra cui Suse. Gli altri offrono soluzioni proprietarie, che costano tanto, e quindi non cambiano il paradigma».

Che invece, lo abbiamo capito, è proprio la prima cosa da cambiare se si vuole affrontare adeguatamente la digital transformation.

 

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