L’It collettiva può farci cambiare

Servizi, sostenibilità, finanziamenti e fiducia: da un panel della seconda giornata dell’incontro organizzato da Idc qualche idea per la ripresa economica.

Quale il ruolo dell’It nel rendere le istituzioni e le aziende più intelligenti per far crescere l’economia e uscire dalla recessione?

Il tema, lanciato dal presidente di Idc, Roberto Masiero, è stato raccolto da un panel di esperti nel contesto della seconda giornata dell’Innovation Forum 2009 di Milano.

Secondo l’economista Giacomo Vaciago, Presidente del Forum dell’Innovazione digitale, «La crisi è in gran parte psicologica, nel senso che il futuro prevedibile, quello su cui basiamo le nostre decisioni di investimento, è peggiorato. Le risposte che vogliamo le abbiamo solo dalle inziative co-gestite. Ma quell’impegno comune dei governi che servirebbe non c’è. Ognuno ha fatto e fa per se stesso». Anche il tanto ammirato presidente americano Obama. «Tutti guardano agli Usa, ma loro hanno una visione nazionale. È vero che le iniziative prese hanno uno sfondo neoeconomico, non ruota tutto attorno al petrolio come all’epoca dell’amministrazione Bush, ma la sensibilità statunitense è inferiore alle attese. Il piano Obama è buono per gli Usa, mentre la crisi è globale. E se tutti hanno il freno a mano tirato il mondo non riparte. Il G20 sa fare le conferenze, ma non sa far squadra».

E in Italia?

Lo Stato deve avere effetto dove, presi singolarmente, non riusciamo ad arrivare. Ma il fatto è che con i nostri soldi comunque non crea ricchezza. Anche perché l’innovazione tecnologica, secondo Vaciago, oggi è più declinata sul versante privato.

«Pensiamo a come le persone tecnologicamente evolute usano uno strumento come il Blackberry: lo fanno per curare gli interessi personali. E se non ci sono le reti che abilitano un’interazione diversa, la loro predisposizione all’It non è sufficiente».

Insomma, nell’It il privato funziona, il collettivo ancora no. E l’innovazione, a questo punto è chiaro, è un fatto collettivo.

Per Carlo Stocchetti, Direttore Generale Mediocredito Italiano, del Gruppo Intesa Sanpaolo, il sistema bancario poggiato sulle famiglie in Italia ha tenuto. La debolezza è in quello che si riferisce alle imprese.

«Quando usciremo dalla crisi – ha detto – la torta sarà più piccola e le imprese nazionali avranno bisogno di fare sforzi per mantenere il loro ruolo sui mercati. In questo senso la dimensione media dell’impresa italiana può essere un limite. La barriera tecnologica potrebbe essere l’unica cosa in grado di difendere le aziende italiane dall’essere copiate».

Per Stocchetti il mondo della conoscenza non riesce a trasferire le proprie competenze alle imprese. E qui il ruolo della banca è evidente, come anche quello della fiducia in lei riposta.

«Se per esempio – ha osservato – la mia banca si togliesse dal mercato, metterebbe in difficoltà un sistema impresa vasto. Deve, invece, fare sano credito, deve fare il proprio compito distinguendo chi merita credito e chi no. E che la strada sia giusta ce lo dicono quelle aziende che negli anni passati hanno investito con noi in innovazione e che ora sono forti», o quanto meno non soffrono.

Per Renzo Vanetti, Amministratore delegato Sia-Ssb, «La tecnologia è lo strumento, l’innovazione è fatta dalle persone, dalle loro idee. Insomma, si basa su un processo formativo che, guardacaso, da noi è mancato. Viviamo in aziende e case dove il digitale la fa da padrone e abbiamo una scuola analogica».

E la nemmeno troppo ardita metafora riesce a strappare uno spontaneo applauso al pubblico.

Secondo Fabio Benasso, amministrare delegato di Accenture «In Italia servirebbe un venture capital più attivo nell’accompagnare le idee».

Un esempio da seguire potrebbe essere quello del modello israeliano, la cui forza riconosciuta è di saper coniugare in senso industriale i fondi in ingresso, ma anche di investire nelle imprese emergenti non solo capitale, ma anche capacità, teste.

E a proposito di capacità, per Stocchetti, «Mediocredito ha saputo mettere insieme le capacità sul territorio, con 6mila intercettori di esigenze, con quelle di analisi tecnica degli imprenditori da finanziare». Fra i risultati di questa attitudine al finanziamento c’è anche la linea di prodotto Nova+, «per finanziare gli investimenti senza chiedere garanzie patrimoniali, ma solo di fattibilità. È così che negli ultimi anni abbiamo sostenuto oltre duemila progetti, anche aiutando le aziende a intercettare i fondi europei».

Ma nell’innovazione quale è il ruolo della sostenibilità, ossia dell’attenzione alle tematiche ambientali?

Per Luciano Martucci, Ad di Ibm, società che si è fatta promotrice dell’iniziativa olistica Smart Planet, «Oggi nel mondo c’è molta tecnologia. L’idea di fondo è di unire tutte le capacità, connettendole in senso orizzontale. Puntiamo, quindi, a creare una meta-struttura It che abiliti l’uso dell’ìntelligenza che nell’It c’è. Così il beneficio sarà per tutti e duraturo. E poi contano le persone, non tanto la strumentazione. È l’uso che fanno della tecnologia che conta».

Valentino Bravi, Ad di T-Systems, uomo di business It che ha anche costruito con le proprie risorse un network transnazionale di scambio di conoscenze sull’innovazione tecnologica, ha osservato coerentemente che servirebbero più incentivi alla ricerca, stante la difficoltà che hanno i ricercatori a rimediare finanziamenti. Sull’aspetto green ha rilevato come oggi l’Ict sia responsabile del 2% dell’emissione globale di gas serra, ma anche come l’industria tecnologica si sia mossa decisamente per ottenere l’ottimizzazione e i risparmi richiesti. «L’aspetto più importante – secondo Bravi – è che l’It può essere veramente di servizio per raggiungere obiettivi di efficienza ambientale».

Ma come si può cambiare velocemente proprio nel finanziare le iniziative di cambiamento strutturale?

Per Benasso il tema del taglio dei costi di struttura non ha bisogno di ulteriori approfondimenti: «la riduzione tattica, nell’Opex, è ormai all’ordine del giorno. Si può puntare sui servizi. Il SaaS riesce a far compiere quel salto quantico che è richiesto; l’outsourcing, in passato troppo concentrato sui costi, può riprendere in mano la leva della trasformazione del business (nel senso del Business process outsourcing – ndr) e l’offshore è una realtà che non ci possiamo nascondere. Sappiamo tutti che il Paese non può più permettersi di pagare i servizi, specie quelli a basso valore percepito, a prezzi non competitivi. Va cavalcata un’onda di riposizionamento su servizi e valore».

Ma proprio sull’offshore Bravi ha avanzato qualche perplessità: «dobbiamo confrontarci con il nostro modo di lavorare, e pensare che non siamo un’economia anglosassone. E dobbiamo anche tenere conto dei problemi che potremmo creare sul fronte occupazionale».

Per Vanetti, in sostanza, il problema è di fiducia: «siamo sicuri che il modello di servizio che proponiamo come leva di ricambio sia davvero una novità? Per esempio Sia già alla fine degli anni 80 ha fatto una rete, la interbancaria, che ora collega duemila banche a livello europeo. Se la chiamassimo infrastructure as a service non ci sarebbe nulla di male. E anche il circuito telematico che creammo per i titoli di Stato era una piattaforma di servizi fatta e finita. Quindi, dobbiamo avere più fiducia in quel che già facciamo».

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