Xiaomi, difficile chiamarla startup

Di Xiaomi abbiamo avuto occasione di parlare negli ultimi trimestri: new entry nelle graduatorie mondiali dei produttori di smartphone, la società cinese si è di fatto imposta all’attenzione come la vera, possibile rivale della finora indiscussa leadership di Samsung.

In questa fine d’anno, tuttavia, c’è un altro motivo che fa meritare a Xiaomi gli onori delle cronache internazionali e non solo di quelle degli addetti ai lavori: è di fatto la startup più valutata.
Ha raccolto qualcosa come 1,1 miliardo di dollari di fondi di venture capital, portando così la sua valutazione a 45 miliardi di dollari.

Una cifra davvero alta, che le fa superare di nuovo un record da molti considerato imbattibile: quello di Uber, la cui valutazione si è fermata appena al di sopra dei 40 miliardi di dollari.

Secondo quanto riportano gli analisti, Xiaomi, che oggi occupa la terza posizione della classifica mondiale dei produttori di smartphone, vale oggi tre volte Lenovo.
Eppure, nonostante la sua presenza sui mercati asiatici sia molto significativa, stenta ad affermarsi in altre geografie, anche per una serie di timori legati ai temi della proprietà intellettuale, che le sono già costate una denuncia da parte di Ericsson.
E non sono pochi a sottolineare le somiglianze dei suoi smartphone con i dispositivi di Apple, in primis Jony Ive, responsabile del design a Cupertino.
Da parte sua la società nega e rafforza la sua strategia basata, in questo caso sì diversamente da Apple, non sulla proposizione di dispositivi di alta gamma, bensì su una molteplicità di modelli venduti in altissimi volumi: poco margine per ciascuno, è vero, ma la quantità fa da compensazione.

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