Sei punti chiave per capire le Pmi

Viaggio ragionato in sei assunti fondamentali fra analisi e opinioni. Per capire la fenomenologia delle piccole e medie imprese italiane. Con un occhio speciale per l’informatica e la tecnologia.

Secondo l’Ocse, la crescita del Pil nel 2007 dovrebbe essere del 2,3%.
Il traino arriva dalle medie imprese, quelle che Mediobanca definisce le “multinazionali
tascabili”. E, guarda caso, proprio dalle medie aziende arriva una buona
fetta degli acquisti in tecnologia.

In questo articolo ci soffermeremo su sei punti fondamentali per capire la
fenomenologia di quel magma che è la Pmi italiana. Gli assunti chiave
sono i seguenti:

  • Le medie imprese fanno da traino
  • Le piccole aziende a bassa tecnologia sono destinate alla deriva
  • Il ricambio generazionale della classe imprenditoriale porta innovazione
  • La “consumerizzazione It” aiuta l’evoluzione tecnologica
  • Il mondo accademico è il miglior alleato delle Pmi
  • Il distretto industriale perde la connotazione geografica e diventa virtuale

Imprese e tecnologia
Secondo il Rapporto Assinform, le grandi imprese valgono il 56,7% della spesa
It, le medie il 24,8% e le piccole con meno di cinquanta addetti contano solo
per il 18,4%. Inoltre, grandi e medie vengono da due anni di aumento della spesa
It, mentre le piccole, dopo un dato negativo dell’1,4%, nel 2004-2005
sono risalite fino a un positivo 0,3% nel 2005-2006. Il ritardo tecnologico,
però, rimane e si annida principalmente nelle aziende sotto i cinquanta
dipendenti.

Le medie imprese stanno meglio, anche se hanno molte lacune da colmare per
quanto riguarda le tecnologie che le fanno dialogare con il mondo esterno. Hanno
l’Erp, ma l’e-commerce continua a non riscuotere un grande successo
e il Crm si trova raramente. Ma qui siamo già un passo avanti. Non si
discute se ricorrere all’high tech, ma quali tecnologie utilizzare.

Fra le piccole imprese, invece, il discorso parte da lontano con una tassonomia
che parla di imprese low, medium e high tech e un pensiero un po’ cinico
che si fa strada. Con le low-tech non c’è nulla da fare. Inutile,
quindi, sperperare sforzi e danaro pubblico per salvare lo zoccolo duro del
carta e penna, gli integralisti del “io il pc non lo so usare”.
Ci penserà il mercato.
Diverso è il discorso per quelle imprese che stanno incrociando il cambio
generazionale. Lo dice la Banca d’Italia e lo ribadiscono altre ricerche.

Innovazione e iPod
Il cambio alla guida dell’azienda porta innovazione. Difficile che il
giovane che prende il posto del padre non porti qualche novità. A questo
si lega anche il fenomeno della consumerizzazione, l’entrata degli strumenti
consumer in azienda. Strumenti che non entrano da soli, ma arrivano grazie al
nuovo assunto che mastica di iPod, wiki e widget o anche al figlio dell’imprenditore,
abituato a una certa dotazione tecnologica casalinga, sconosciuta all’azienda.

Il ruolo dell’università
Sulla spinta anche del ricambio al vertice, capita che le imprese cerchino all’esterno
quelle competenze che gli servono per inventarsi qualcosa di nuovo. Centri di
trasferimento tecnologico, università e altri enti sono lì a disposizione,
ma il contatto non è facile; l’azienda ha poco tempo da dedicare
ai progetti e spesso non conosce la potenzialità di queste organizzazioni.

E la ricerca molte volte si limita all’ambito globale come se il Politecnico
di Milano nell’era di Internet non possa lavorare con una impresa di Bari.
È questo, infatti, uno dei difetti del sistema dell’innovazione
che ha nelle piccole e medie imprese la clientela principale. Trecento strutture
che devono interconnettersi e offrire ricerca a tutte le imprese.

Perché, come ha sottolineato qualcuno, non è detto che l’impresa
di Vicenza abbia la risposta migliore alle sue esigenze nella sua provincia.
Magari è l’università toscana ad avere la risposta giusta,
oppure la tecnologia utile può arrivare dall’estero. D’altronde
Procter & Gamble ha trovato a Bologna l’inchiostro adatto per scrivere
frasi simpatiche sulle sue patatine, nonostante abbia già 7.500 ricercatori
interni.

Dal mondo accademico e, in parte, da quello produttivo (per il momento con
un tasso che fa ritenere il fenomeno ancora sporadico) arrivano, poi, segnali
di una evoluzione del distretto industriale per come l’abbiamo conosciuto
finora. Il fenomeno che agisce è ormai ricorrente in campo hi-tech ed
è quello della virtualizzazione.

Il distretto virtuale
Bocconiani ortodossi, come il professore Paolo Preti (che dieci anni fa fece
partire il Master Pmi della Sda Bocconi) o come Roberto Verganti del Politecnico
di Milano, ma anche imprenditori illuminati, come Francesco Beraldi di Orangee,
indicano nella metafisicità del distretto hi-tech la chiave dell’evoluzione,
o se si vuole, dell’innovazione per le Pmi: si lavora, si sviluppa e si
apprende non tanto o non solo con chi ti è vicino, ma anche con chi ti
è affine imprenditorialmente. E questi, coerentemente con l’economia
globalizzata, può risiedere anche a diecimila chilometri di distanza.

Si tratta di un’evoluzione consapevole delle possibilità che la
tecnologia offre. Il superamento dello schema fisico del distretto, per l’approdo
a un concetto consortile virtuale, dove gravitano anche centri di competenza
e trasferimento tecnologico pare proprio essere l’opportunità che
le Pmi hanno di fronte per il prossimo quinquennio.

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