Le economie di scala dei sorgenti “aperti”

Alcune considerazioni sulle concrete opportunità e i miti dell’open source. Per non lasciarsi abbagliare dalla convinzione che free sia sinonimo di gratuità assoluta su tutti i fronti.

Le origini dell’open source risalgono agli anni 60, con la comparsa dei primi computer commerciali. Questi venivano forniti con un corredo di software, comprensivo del sorgente, liberamente modificabile e scambiabile tra gli utente. Successivamente, con lo sviluppo dell’It, il software si è trasformato in un bene immateriale con una propria rilevanza, autonoma rispetto a quella dell’hardware. Questo ha condotto, a partire dagli anni 70, alla modalità di distribuzione attuale del software, che viene detto "proprietario", di cui si acquisisce una licenza d’uso che non consente interventi sul codice sorgente. Il termine "free software", inteso in contrapposizione con il concetto di proprietario, viene introdotto da Richard Stallman che, nel 1984, scrive il Manifesto Gnu (Gnu’s Not Unix), nel quale vengono sanciti i diritti dell’utente del software aziendale. Lo stesso Stallman predispone la Gnu Public License (Gpl), ovvero lo strumento che garantisce la tutela legale di questi diritti. Negli anni 90, la diffusione di collegamenti a basso costo comporta l’allargamento della base dei programmatori open source.


In questo nuovo contesto matura l’idea di Linus Torvalds, che decide di rendere pubblici i sorgenti via Web per incentivare tutti a migliorare il software. A chi pensa all’open source, l’immagine che si materializza all’istante è quella del Pinguino. Le sorti del software open sono, infatti, legate a doppio filo a Linux.

Soluzioni performanti


Sul fronte server, Linux è piuttosto diffuso alla periferia della rete. Questa presenza è dovuta, in larga parte, alla generale convinzione che l’Os del Pinguino abbia assunto il rango di un vero e proprio sistema operativo di rete. La transizione iniziale di Linux verso il mondo delle aziende è avvenuta parallelamente al boom di Internet. I service provider, infatti, ci hanno visto un modo per fare il deploy dei sistemi utilizzando componenti standardizzati, senza avere costi di licenza associati. L’open source è già entrato da tempo all’interno dei data center, forte di alcune applicazioni che hanno guadagnato, da subito, il rango di soluzioni solide e performanti, come il server Web Apache o quello logico, JBoss. Per quanto attiene ai diversi ambienti, su elaboratori centrali (mainframe), intermedi (server) e postazioni clienti (i singoli desktop) l’utilizzo dell’open source può offrire molteplici vantaggi. Nel mainframe, ad esempio, Linux consente di ridurre i costi gestionali, consolidando in un unico ambiente un elevato numero di server, ma offre anche l‘opportunità di realizzare applicazioni mission critical sullo stesso hardware che ospita i dati aziendali. Ma sono i server gli ambienti dove si è maggiormente diffuso l’utilizzo di software libero. L’offerta comprende, infatti, numerosi prodotti su piattaforma aperta. Per quanto riguarda, infine, le postazioni client, le novità sono numerose. Proprio per il fatto di essere nato come sistema simil-Unix, Linux ha ottenuto grande popolarità, in particolare sulle workstation e nei sistemi di sviluppo, ma una strada nuova l’Os del Pinguino l’ha imboccata anche sul fronte dei sistemi embedded. Il mercato registra una sensibile crescita e i prodotti open source hanno ormai raggiunto un buon livello di completezza e affidabilità delle funzioni disponibili. Analizzando la diffusione di pacchetti come OpenOffice e simili, tuttavia, si rileva ancora una certa resistenza degli utenti, soprattutto per la difficoltà ad accettare cambiamenti nelle modalità operative. Anche le aziende che finora sono state a guardare, oggi iniziano a pensare a Linux come un’alternativa credibile agli altri ambienti operativi, sotto il profilo di costi, risorse e controllo. I dipartimenti It considerano, in linea di principio, l’ipotesi del software open source quando intendono accelerare la migrazione dagli ambienti legacy, hanno server obsoleti o scarsamente utilizzati o, infine, qualora stiano pensando a un’infrastruttura multitier in grado di supportare le Soa, cosa questa che richiede macchine in grado di espandersi orizzontalmente. Proprio la scalabilità orizzontale è una delle caratteristiche per le quali Linux guadagna consensi, perché permette di distribuire facilmente i carichi di lavoro tra diverse macchine a basso costo.

Libero o proprietario?


Non esistono elementi concreti per stabilire a priori quali aziende abbiano convenienza a utilizzare software free. Occorre, infatti, valutare attentamente molti elementi e non lasciarsi abbagliare dall’idea (ovviamente falsa) che open source sia sinonimo di gratuito. Certo è vero che chi pensa all’ipotesi del software "libero" lo fa attratto, in primo luogo, dall’opportunità di risparmiare, convinto che si tratti semplicemente di prelevare gratis quanto già disponibile in Rete. Le valutazioni, invece, sono decisamente più difficili. Quel che è certo è il risparmio sui costi di licenza d’uso. È possibile, ad esempio, acquistare una sola copia dell’applicazione, personalizzarla e riutilizzarla. Alcuni utenti, poi, configurano i propri sistemi in dual boot, per consentire l‘utilizzo di diversi Os sullo stesso computer, usufruendo del valore aggiunto dell’open source abbinato a soluzioni proprietarie. Non bisogna farsi trarre in inganno dal fatto che i costi di licenza per il software libero siano pressoché azzerati. Di fatto rimangono "vivi" quelli associati a installazione, manutenzione, supporto e formazione. Proprio in materia di servizi, infatti, si gioca la sfida dei fatturati per i vendor. Quello delle applicazioni a sorgente libero è un mercato estremamente fluido, specie se si adotta un’infrastruttura It basata su hardware e software standardizzato e i costi del passaggio da un fornitore all’altro sono, quindi, piuttosto contenuti. Gli oneri dell’essere "legato a doppio filo" al produttore di un applicativo proprietario vanno confrontati con tutti quelli legati all’introduzione in azienda di software libero. Oggi si trovano risorse già sufficientemente esperte (e a costi accessibili) nel supporto tecnico, ma occorre valutare anche la necessità della formazione interna e, soprattutto, il peso dei servizi di implementazione e consulenza. Nascono e proliferano, anche in Italia, nuove categorie di operatori It, che si collocano in un ambito intermedio tra i system integrator puri, le software house e le società di consulenza, che operano quasi esclusivamente in ambito open source. I tecnici di queste società hanno, spesso, competenze elevate e forniscono attività di design delle infrastrutture It, selezionando il bouquet di applicazioni free in grado di soddisfare le esigenze degli utenti. Si tratta, in genere, di soluzioni preconfigurate e preventivamente testate, che la comunità open source ha già sperimentato. Alcuni di questi "pacchetti" certificati sono già noti, come Lamp (si veda box in alto).

Sviluppi guidati


È rilevante porsi il problema dell’open source in contesti nei quali il software ha un peso e una presenza prioritaria all’interno dell’azienda. Tale paradigma permette di affrontare progetti di sviluppo anche sofisticati con la garanzia di un basso costo di ingresso. Si tratta di un buon sistema per validare le innovazioni in ambito software e questo perché, anzitutto, l’accesso ai codici sorgenti offre la garanzia di una miglior trasparenza lungo tutto il processo di sviluppo. In seconda battuta, poi, è la comunità open source stessa (oggi più ampia che mai) a fornire gli input e a indirizzare aggiornamenti e miglioramenti del nucleo centrale di un applicativo. La comunità, in questo senso, svolge un ruolo chiave perché rappresenta l’utente finale ed è in grado di validare le innovazioni e gli aggiornamenti "sul campo", senza essere vincolata a un singolo vendor. Legare a una comunità di sviluppatori "non stipendiati" il futuro di parte dell’infrastruttura software utilizzata in azienda impone riflessioni oculate. I progetti open source sono, infatti, per loro natura imprevedibili. Il ciclo di vita di un’applicazione a codice aperto è guidato dalle esigenze della comunità, che possono non coincidere con quelle specifiche del singolo utente. Inoltre, a un certo punto della storia di un software, l’interesse della comunità può venire a mancare. Questo accade anche nell’universo degli applicativi proprietari ma, in questo caso, l’utente ha ben chiaro con chi ha a che fare e, avendo pagato licenze, contratti di manutenzione e aggiornamento, potrà ottenere ascolto più facilmente che non rivolgendosi, in astratto, alla comunità di sviluppatori free code.

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome