Il bilancio del Mobile World Congress

Chiusa la kermesse di Barcellona, è il momento di riflettere sui modelli di business. Il ruolo e le responsabilità delle Telco.

A volte, per sentire il polso di un evento, basta ascoltare chi lo vive di riflesso. A Barcellona, quest’anno, i tassisti erano contenti. Di gente ce n’era tanta, sempre tanta. Forse un po’ meno degli anni scorsi, e il risultato è che questa volta la città non è impazzita. Merito dell’organizzazione, certo, della municipalità, delle forze dell’ordine, ma forse è anche un po’ merito della crisi, che ha tenuto a casa coloro per i quali una presenza al MWC non era poi così indispensabile.

Così, fatti salvi i primi due giorni di vera e propria ressa, gli altri due si sono svolti all’insegna del tutto pieno, ma non tutto esaurito.
Va detto, sia chiaro, che per chi è da tempo abituato alle dimensioni e alla partecipazione agli eventi italiani, il colpo d’occhio del quartiere fieristico è comunque impressionante.

Resta da capire, però, che cosa ci fosse davvero da dire. E quali fossero le vere novità. Perchè, a ben vedere, il MWC 2009 si è aperto all’insegna dei giochi già fatti. Che le interfacce touch siano il must del momento, lo confermavano già gli annunci dello scorso autunno. Che la partita dei sistemi operativi si giochi ormai su più tavoli (Android, Symbian, Windows Mobile, con Rim, Palm, Apple e Linux a far da contorno) è anche questo dato per acquisito. Così come per acquisito è dato il fatto che email e multimedialità non siano più nè “nice to have” nè “must”, ma siano inesorabilmente passati a livello di commodity, delle quali nessuno più si meraviglia.

Si comprende così come mai l’attenzione sia solo in parte attratta dai singoli dispositivi, o dall’annuncio dell’ultimo fantasmagorico prodotto.
L’attenzione è oggi spostata tutta sul fronte dei servizi. I social network, in primis, dei quali nessuno sembra oggi poter fare a meno e dunque destinati a divenir anch’essi commodity. E poi la pletora degli altri, quasi infinita, restando solo a quanto era in mostra in fiera. Servizi consumer, professionali, alle imprese, agli individui, al cittadino e alle community. Servizi, o applicazioni, che dir si voglia, per i quali sembra in questo momento non esistere un business model di riferimento. Il revenue share è la parolina magica che si sente pronunciare ovunque, accompagnata però da una seconda considerazione un po’ più preoccupante: “Tocca ai carrier cambiare le regole del gioco“.

Ecco allora farsi largo la non piacevole sensazione che all’elaborazione di modelli di business concreti e di medio respiro in molti non siano ancora arrivati e in molti rischiano di non arrivare mai.
E lo sottolinea anche Fabio Falzea di Microsoft, quando  dichiara che “chi fa servizi ha oggi il problema della definizione del business model“. E soprattutto quando puntualizza che inevitabilmente, in un momento economicamente difficile quale quello che stiamo vivendo, si arriverà a una “scrematura dei modelli non sostenibili“.

Ma a chi tocca definirli, questi modelli? C’è un unanime accordo nel vedere nei Telco Operator il collo di bottiglia. Colpevoli di non sapersi sganciare da vecchi modelli che hanno fatto il loro tempo. Colpevoli di non voler ragionare in termini tariffe flat (“ma veramente flat“) e di non concepire modelli di sviluppo differenti.

Intanto adesso è il momento dei marketplace. Dopo Apple, a ruota arrivano Microsoft, Nokia, Research in Motion. Senza mai parlare di killer application, che ormai sembra termine caduto in disuso, si guarda alla creatività. E si pensa a premiarla con i contest. Ne sono stati lanciati tanti, tanti ancora verranno, con cadenze annuali, semestrali o anche solo d’occasione. Anche questo è un modo di sostenere un business, nell’attesa di capire quale sarà la strada migliore.

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