Fusioni e e acquisizioni fanno ancora troppa paura in Italia

Nel caso Parmalat si è invocata la difesa dell’italianità, ma il sistema economico nazionale ha bisogno di una seria politica di M&A

Le parole “acquisizione” e “fusione”, perlomeno sui mass media del nostro Paese, sono spesso accompagnate da altri termini piuttosto bellicosi, quali italianità, interesse nazionale, sovranità, settore strategico e così via. È quanto si è potuto osservare in questi giorni sui principali quotidiani nazionali negli articoli dedicati alle scalate estere (riuscite o ancora in atto) per nomi del calibro di Bulgari e, soprattutto, Parmalat. Quando si parla di merger&acquisistition (M&A), insomma, è difficile sentirne disquisire in termini di opportunità, come invece si è cercato di fare nel corso del convegno “Creazione di valore e operazioni di M&A”, organizzato dal Centro ricerche Cresv dell’Università Bocconi di Milano.

L’impatto della crisi
Negli ultimi anni la crisi economica globale ha pesantemente impattato sul numero e volume delle operazioni di M&A, che normalmente tendono ad aumentare in condizioni di crescita del Pil. La fase di euforia che aveva interessato il settore nei primi anni 2000 si è perciò esaurita nel 2008, in concomitanza con l’inizio della recessione mondiale. Nel 2010 il numero delle operazioni (che hanno interessato almeno il 2% capitale sociale) a livello globale è ulteriormente diminuito (-2,4%) rispetto al 2009, anche in termini di valore (-6,7%). In realtà il 2010 è stato un anno record per le fusioni e acquisizioni nei paesi emergenti: l’area Bric ha registrato un incremento del 65,5% , raggiungendo un peso del 18% nel valore delle operazioni globali di M&A. La quota dell’Italia, al contrario, è diminuita dal 3% di 10 anni fa all’attuale 1%. Le società del nostro Paese, inoltre, sono diventate un obiettivo proprio per le imprese dei paesi del Bric.

La necessità di pensare in grande
Le ben note caratteristiche strutturali del nostro sistema economico non giocano certo a favore di una robusta politica di acquisizioni: in Italia si possono contare meno di 50.000 Spa in Italia (spesso comunque controllate da famiglie), contro oltre 1 milione di società di persone, per una media dimensionale di 3,8 addetti. A questo quadro occorre aggiungere lo stress delle banche, in questa fase senza’altro meno disposte a sostenere operazioni onerose. La somma di tutti questi fattori, ha spiegato Giuseppe Renato Grosso, presidente K Finance, comporta che oggi “Siamo più preda che non predatori, anche se questo è un po’ meno vero per le Pmi che non per il mercato in generale. La difesa dell’italianità è comunque un problema mal posto: la sfida, piuttosto, è dotare la media impresa italiana delle caratteristiche per acquistare all’estero. Oggi acquisire è infatti diventato una necessità: dal momento che è sempre più difficile ottenere una crescita organica, le nostre imprese possono riuscire a crescere soltanto investendo in quelle aree del pianeta in forte espansione”.

Un 2011 più dinamico
Per il 2011 il contesto macroeconomico non è certo confortante, però, secondo quanto emerso dal convegno, si dovrebbe registrare un atteggiamento più positivo verso le operazioni di M&A rispetto all’anno scorso. Già nel 2010 si è assistito in molti casi a buone performance di aziende industriali nazionali in alcuni settori di nicchia, che dunque potrebbero essere ora pronte a rilevare quote di società concorrenti. La recente nascita del Fondo italiano di investimento, che ha come obiettivo dichiarato l’incentivazione dei processi di aggregazione tra le imprese minori e può contare su un miliardo di euro da investire, dovrebbe favorire una maggiore disponibilità di capitali. Gli stessi casi Bulgari e Parmalat, d’altronde, testimoniano la presenza di un clima più frizzante.

Più attenzione alla solidità industriale
Anche a livello globale, come evidenziano i dati relativi al primo trimestre, il 2011 dovrebbe rivelarsi un’annata migliore rispetto al 2010, anche se con alcune novità rispetto al passato: in particolare ci sarà una maggiore attenzione alla solidità industriale delle imprese oggetto di trattativa e meno agli aspetti puramente finanziari. Le operazioni condotte dai fondi di private equity saranno più numerose (i fondi investiranno anche in Pmi dai 5 ai 30 milioni di euro) così come quelle per acquisire il controllo di quote di minoranza. Tra i settori di maggior interesse per gli investitori ci saranno il food&beverage, la green economy, le utility e le Tlc.

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