Fatevi moderni Marco Polo

La Cina non è affatto vicina ma ci sta riservando delle buone opportunità. Comunque per arrivare e fare business in questa parte del mondo conviene conoscerne modi e costumi. Altrimenti il rischio è alto

Gennaio 2006, In via Benaco, sede del capoluogo lombardo del consolato cinese, le segretarie
dei manager milanesi diretti in Cina si trovano spesso a dover affrontare
lunghe code per ottenere i visti. Primo passo necessario se giusto si
vuole intraprendere un "viaggio" verso la lontana Cina. Lontana
non solo perché per arrivare a Pechino ci vogliono come minimo
una decina di ore di volo, ma perché dallo stesso capoluogo lombardo
non partono mai voli diretti. Bisogna recarsi a Roma o in altre città
europee. Per forza. Quindi, vicina la Cina non è affatto. A cominciare
dai modi di vivere e dalla stessa cultura che forse per la rabbia della
concorrenza che questa nazione ci incute, conosciamo ben poco. Eppure
conoscere la Cina ormai è un dovere di business. Così come,
forse, ai nostri figli converrebbe far studiare l’idioma cinese
come seconda lingua accanto all’inglese, che in Cina è appannaggio
solo delle nuove generazioni.

Comunque sia, consigliamo, a chi fosse attratto in termini di business
da questa cultura, di partire preparato. In poche parole se non avete
mai sentito parlare, o avete poco approfondito, la definizione di "socialismo
di mercato con caratteristiche cinesi", evitate di spendere soldi
e tempo per programmare una joint venture da questa parte del mondo. L’iniziativa
non è semplice per tradizioni, lessico e cultura. Anche se di spazi
ce ne sono. Sicuramente per software house e system integrator italiani.

Opportunità e…
«La Cina è un mercato ricco di opportunità per
le imprese italiane, ma anche di vincoli»
afferma Paola
Balzarotti Monti
, giornalista free lance esperta del settore
durante un incontro in tema organizzato dall’Istituto Internazionale
di ricerca
. A cominciare dal fatto, per esempio, che per operare
in quel Paese bisogna da subito stringere un’alleanza, chiamiamola così,
con un partner cinese. «Questa è più di una prassi
– riprende la Balzarotti –, è un must imposto dal Governo cinese
che non permette di operare in totale autonomia sul territorio»
.
Così come dall’Italia possiamo contare solo su tre istituti di
credito abilitati a lavorare con la Cina: Banca Intesa,
San Paolo Imi e Banca di Roma. Benché
sembri, quello cinese non è un mercato libero. E per poterci lavorare
bisogna trovare una precisa collocazione, in ultima istanza anche a livello
di contatti.

«Il 70% delle aziende che sbarcano in Cina non chiede consiglio
a nessuno ed è alto il tasso di fallimento delle joint venture»

sostiene Giovanni Orgera, direttore della sede di Shanghai
della Banca di Roma che continua osservando: «Il problema, comunque,
è trovare degli esperti cui affidarsi»
. Un consiglio
che fa il paio con la stessa attività della banca che in questi
casi funziona anche da advisory. Poi, Orgera aggiunge: «Vero
è che in questa terra tutto corre velocemente, non solo l’economia,
ma anche e soprattutto le normative»
. Per non parlare dello
stesso sistema bancario: un altro mondo. Con regole – come quella del
borrowing up (legata al prestito alle aziende) che «sta creando
grossi problemi per cui si spera
– riflette Orgera – che prima
o poi venga rimossa»
.

Un Paese in corsa
A Pechino tutto, infatti, si muove freneticamente. Anche le biciclette
che girano ancora senza rispettare alcun segnale stradale. Per non parlare
delle macchine. Modelli vecchi se ne vedono ben pochi. Piuttosto sfrecciano,
o rimangono imbottigliate per ore nel traffico, auto da veri ricchi. Su
un miliardo e 300 milioni di persone si contano cento milioni di benestanti
(qui si chiamano xingui e vestono per lo più di firme)
le cui abitudini sembrerebbero già molto vicine a quelle occidentali
(contenti loro). Ma l’abitudine a cambiare il nome cinese in uno internazionale
(fatto che per lo più avviene durante il liceo dove i ragazzi e
le ragazze scelgono di diventare un John o una Mary qualsiasi) non basta.
E, comunque, questo non vale per tutto il territorio cinese: la vita sulla
costa è molto diversa ed evoluta, profondamente differente dal
tenore di vita che si può riscontrare nell’entroterra.

Così lo sviluppo
di Shanghai, per esempio, si può considerare unico: in un solo
anno sono sorti 70 grattacieli e ci hanno messo solo due anni per costruire
due linee metropolitane. Per non parlare poi di Hong Kong che con la Cina – malgrado l’evoluzione
politica che vede i territori rientrare al’interno del governatorato
cinese – non vuole avere ancora niente a che fare.

Una questione di salari
Di certo ciò che non si è ancora adattato ai nostri modelli
è il fattore salario. Si sa: sono bassi. Il settimanale Business
Week
riportava recentemente una tabella riassuntiva che rendeva esplicito
come il salario medio di un lavoratore a Pechino è di 211 dollari
(210 a Shanghai). Se mai fosse possibile, però, ci sono zone ancora
meno "care" come avviene a Chengdu, area che sarebbe interessata
ad attrarre grossi investimenti stranieri in questo momento.

Fatti due conti, un operaio cinese lavora in media 500 ore all’anno
più di un italiano (con tassi di ore lavoro di 2.087 annue), ma
guadagna un decimo. Basta? No, perché le aziende estere che su
queste cifre spesso fanno i conti, sottovalutano un altro aspetto fondamentale,
ovvero che in Cina c’è un fortissimo turnover e una bassissima
fidelizzazione del dipendente. E questo a qualsiasi livello. Quindi, alti
sono i costi di formazione con bassissimi ritorni. Un fattore da tenere
in considerazione.

Joint venture in tilt
Ma dove il fianco rimane più scoperto in fase di joint venture?
Pare che i fattori logistici (in Cina, per esempio, non si compra mai
un terreno: lo si affitta) e produttivi (la carenza di energia elettrica
è un fattore da valutare attentamente perché in certe zone
tutt’oggi crea grossi problemi) siano quelli che mandano più
in tilt lo sbarco in terra orientale.

Vero è che il sistema di negoziazione è ancora un mondo
a parte e il consiglio di Silvia Picchetti, local partner
della Baker & McKenzie, è quello di «stabilire
sin da subito le regole di un possibile contenzioso attraverso un documento
da applicare a fronte di eventuali conflitti»
. In Cina, infatti,
la mediazione va per la maggiore: «L’arbitrato – sottolinea
la Picchetti – è una pratica molto radicata soprattutto in
sede di contratti internazionali»
.

Benché lontana dalla cultura italiana, la mediation in Cina ha
già permesso di risolvere molti contenziosi. L’accorgimento,
però, è quello di programmarlo subito in fase di trattativa,
inserendo nel contratto postille di procedura in caso di situazioni problematiche
da risolvere. Il dubbio è: si sta stringendo un’alleanza
e si parla già di come procedere in caso non andasse a buon fine?
«Questo sistema non è visto male – continua la Picchetti
-. Non preclude le trattative, bensì le potrebbe per assurdo favorire».
Ovvio, anche in questo caso non conviene condurre le trattative autonomamente.
I meandri della legislatura cinese sono ancora più complicati di
quelli italiani, tanto che esistono leggi regionali segrete che sono conosciute
solo da avvocati locali.

Opportunità e…
Facile arrivare in Cina, quindi, non è: ma non bisogna perdersi
d’animo. Le potenzialità ci sono. A cominciare dalla vera
apertura commerciale che dovrebbe entrare in vigore dopo i passi già
intrapresi all’interno dell’Omc (l’organizzazione mondiale
del commercio). Lavorare in Cina significa produrre per i cinesi, dare
un servizio alle aziende estere che in Cina hanno già aperto. Si
parla di una popolazione desiderosa e bisognosa di nuova tecnologia. Ma
anche industrie potenzialmente interessate a fornitori occidentali ben
preparati. E difatti anche gli "italiani" si stanno muovendo.
Questa stessa inchiesta dimostra come diverse software house e alcuni
system integrator hanno già messo piede in Cina. E da loro arrivano
diversi consigli. Ma c’è chi ormai ha già capito che
i vantaggi di oggi non rimarranno tali domani. Perché da queste
parti le cose cambiano molto velocemente.

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