Distretti tecnologici e innovazione italiana. Il connubio sembra avere delle ottime basi di collaborazione tra chi svolge ricerca universitaria e chi rappresenta l’industria con il preciso scopo di innovare. Ma è facile intraprendere questa strada in Italia? L’abbiamo chiesto a Veneto Na
«Competiamo ormai in un settore globale – ha detto Alessandro Musumeci, direttore generale dei servizi informativi del Miur -, dove esistono diversi player, non solo rappresentati da Stati Uniti ed Europa, ma anche da Cina, India e Brasile. In futuro ce ne saranno sempre di più e lavoreranno tutti per innovare». Secondo Musumeci, quindi, è necessario perseguire l’eccellenza: premiare il meglio, perché è proprio quest’ultimo che si dovrà confrontare su scala internazionale.
Della stessa opinione è anche Alfonso Fuggetta, amministratore delegato del Cefriel, il quale è convinto che in questa sfida al rilancio delle produzioni del made in Italy, l’Ict e le nuove tecnologie possano giocare un ruolo importante non solo dal punto di vista del miglioramento dei processi, ma anche e soprattutto nel miglioramento e nell’innovazione dei prodotti. Secondo Fuggetta l’Ict permette di innovare al tempo stesso, sia i prodotti di settore, sia quelli che, invece, fanno parte di categorie anche molto lontane dal mondo tecnologico, o della produzione materiale nel senso stretto del termine, come per esempio quelli del settore tessile o alimentare. Inglobata nei prodotti, infatti, la tecnologia non rappresenta più unicamente uno strumento per l’enhancement dei processi, bensì è in grado di innovare i prodotti fornendo un valore aggiunto decisivo, una sorta di “intelligenza” in grado inoltre di abilitare una serie di servizi legati agli oggetti.
«Il nostro sistema industriale – ha spiegato l’amministratore delegato del Cefriel – deve rilanciare le proprie attività di produzione nel senso più ampio del termine, mettendo sul mercato entità che abbiano un valore e che possano essere vendute ed esportate, e che ci permettano di competere con gli altri Paesi».
La situazione in Italia
«La realtà italiana dei Distretti tecnologici – ha spiegato Michele Cipolli, responsabile del gruppo di lavoro di Tecnalia sui Distretti tecnologici – è partita diversi anni fa, attorno ad alcune aziende che hanno svolto un ruolo di polo aggregatore territoriale, facendo crescere un certo numero di Pmi, microimprese, start up e spinoff universitari, abbastanza importanti». Si tratta, in sostanza, come ha ripreso Alessandro Musumeci del Miur, «di aggregazioni di enti pubblici e privati, che possono essere sia su base territoriale, che su base più ampia e quindi “funzionale”, e che hanno il preciso scopo di innovare». All’interno di queste strutture le componenti fondamentali che devono essere presenti sono sostanzialmente due: una componente di ricerca e di innovazione finalizzata allo sviluppo precompetitivo, che porti quindi a sperimentazioni e prototipazioni, e una componente di sviluppo industriale finalizzato, invece, alla realizzazione di prodotti e soluzioni concrete che possano essere messe sul mercato.
«Se manca uno di questi aspetti – ha continuato Musumeci – allora il Distretto non sussiste. Non si tratta, quindi, di una definizione diafana o eterea, ma abbiamo criteri di qualifica molto precisi e stringenti, che infatti hanno portato all’identificazione e al riconoscimento di alcuni distretti, escludendone altri». Il ruolo del Distretto è in un certo senso quindi quello di trait d’union tra ricerca e industria, tra pubblico e privato, e proprio per questa ragione uno degli obiettivi del Miur è quello di garantire un ruolo assolutamente paritetico tra le parti.
La volontà, ha spiegato Musumeci, è di fare in modo che il ruolo di motore non sia né della ricerca (pubblica o privata che sia), né tanto meno dell’industria, in quanto senza una comunione di intenti garantita dall’equilibrio paritetico delle parti, prevarrebbero gli interessi della componente industriale a scapito di quella universitaria, o viceversa, allontanando così l’obiettivo comune da perseguire per innovare il sistema produttivo del Paese.
Sui segmenti industriali
A detta di Claudio Giuliano, direttore della Fondazione Torino Wireless, a livello di industria, i problemi vanno affrontati a seconda del segmento di riferimento.
«Più ci si avvicina alla grande azienda – ha spiegato – minore è la necessità che si riscontra in termini di aiuto alla ricerca, in quanto questo tipo di impresa nella maggior parte dei casi dispone di tutte le risorse necessarie per farla in proprio. L’azione del distretto in questo caso è quella di garantire maggiore informazione alla grande industria, mettendola in comunicazione con le università». Al contrario, invece, la piccola impresa non ha la massa critica necessaria per fare ricerca in prima persona. In questo caso allora, il lavoro del Distretto deve essere indirizzato ad accompagnare e supportare queste realtà, mettendole in condizione di passare da uno sviluppo incrementale, a uno sviluppo radicale, attraverso azioni di ricerca che forniscano loro la possibilità di fare importanti passi avanti dal punto di vista del business. In ultimo, per ciò che concerne l’aiuto alla media impresa, l’opinione di Giuliano è che esso vada indirizzato principalmente verso la creazione di un net-working di relazioni internazionali, che permetta a questo segmento di industria l’apertura di nuovi canali commerciali.