Le opportunità per le aziende italiane nella tigre asiatica, analizzate a Milano nel convegno in Assolombarda con le testimonianze degli imprenditori
L’India tra cultura degli affari e ataviche superstizioni: per investire proficuamente nella tigre asiatica, bisogna aprire il proprio modello di business a nuove esperienze. Un esempio arriva dall’aneddoto ricordato da Roberto Bertocco, vice presidente del settore commerciale Tecnimont, intervenuto al convegno di Assolombarda a Milano su opportunità e strategie per le imprese italiane. È il racconto di un manager indiano che, alla domanda sul perché indossasse bracciali con pietre colorate sempre diverse, ha risposto che servivano a influenzare positivamente il suo lavoro. O ancora, un imprenditore che ha preteso di firmare un accordo alle 16.36 (e non cinque minuti prima) perché l’oroscopo prevedeva maggior fortuna dopo quell’ora.
Vantaggi e limiti
I vantaggi della tigre sono numerosi: innanzitutto, una formazione dirigenziale di altissimo livello, universitaria e attraverso master all’estero, che riguarda non solo i vari aspetti professionali ma anche le competenze linguistiche (tutti parlano inglese). In parole povere, è più facile intendersi con gli indiani piuttosto che con altri popoli di paesi emergenti, come la Cina. Questo perché, nonostante le diversità di valori e credenze, c’è un terreno comune: la cultura del business, appunto, che si traduce spesso in vaste aziende – conglomerati – appartenenti alla stessa famiglia da più generazioni. Ecco, allora, che torna in voga il concetto di “glocal”, che significa operare contemporaneamente su scala globale e locale.
L’India non come paradiso per manodopera low cost (il costo del lavoro, sempre più specializzato, sta invece aumentando), ma come opportunità per conquistare nuove quote di mercato in un’economia dove i consumi, in parte ispirati dallo stile di vita occidentale, si stanno espandendo. Ovviamente ci sono anche dei limiti, per esempio la complessità burocratica, la carenza d’infrastrutture e di forniture per certi materiali. Come ha segnalato Bertocco, però, il vero costo per un’azienda italiana è quello di non impegnarsi in India, rinunciando così al suo bacino di mercato.
Partner industriali
Al momento, gli investimenti indiani in Italia superano notevolmente quelli del nostro paese verso la tigre, proprio a ricordarci che l’attenzione per il made in Italy è una realtà consistente. Si apprezzano la qualità dei prodotti, il valore del marchio, il background di conoscenze e tecnologie. Per questo motivo, non è tanto il miraggio della delocalizzazione ad attirare gli imprenditori, quanto la possibilità di stringere alleanze con reciproci vantaggi. Tutti i settori, a parte qualche eccezione come le banche, gli studi legali e il nucleare, sono aperti al capitale straniero. Quelli più appetibili per le imprese italiane sono tessile, abbigliamento, lavorazione del legno e della pelle, costruzioni, meccanica, servizi, logistica, turismo.
Le nostre aziende in India sono 330, per la maggior parte con propri uffici o tramite joint venture (37% in entrambi i casi) e per il 22% attraverso ditte indiane controllate al cento per cento (dati Pantheon corporate consultants). Considerando come esempio una joint venture, il partner italiano conferisce del capitale, l’attività di ricerca e sviluppo e una base di clienti internazionale. Il partner indiano, invece, apporta (oltre al capitale) una base di clienti, un management e una conoscenza del mercato a livello locale. Dall’unione si realizza, così, quella cultura “glocal” che tanto piace agli imprenditori di entrambi i paesi e genera espansione del mercato, miglioramenti tecnologici, outsourcing, minor costi di ricerca e sviluppo.





