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Industry 4.0, bene il piano qualche dubbio sulla governance

C’è un piano e non è poco visto che si tratta di un atto di politica industriale del quale c’era grande bisogno. È questo il primo commento positivo che si può fare al progetto relativo all’Industry 4.0 varato dal Governo.
E non a caso numerosi sono stati i commenti che hanno sottolineato l’importanza delle cifre stanziate e anche la giusta direzione presa dal Governo che, come ha sottolineato Marco Taisch, professore di Sistemi di produzione automatizzati e tecnologie industriali al Politecnico di Milano, non ha voluto dare un’impronta dirigista individuando settori o tecnologie di destinazione come invece hanno fatto altri Paesi.
In realtà, con il superammortamento sui beni strumentali il Governo guarda al manufatturiero come al primo settore chiamato a cogliere le opportunità dell’Industry 4.0. Perché, dando per scontato – e non lo è affatto – che agli annunci seguano le norme scritte nella legge di Bilancio, ora tocca alle imprese.

Chiamata alle armi per le imprese verso Industry 4.0

Il piano è infatti una sorta di call to action per il mondo industriale italiano chiamato a darsi una mossa collaborare con le università, lanciare progetti, assumere dipendenti con profili elevati, cercare in sostanza di fare proprio questo nuovo paradigma che cambierà il modo di produrre. E la call riguarda soprattutto le Pmi perché il rischio è che tutto questo vada a vantaggio di pochi mentre gli altri arrancano pensando di poter continuare a cavarsela. Nell’industria italiana infatti c’è bisogno, banalmente, di macchine nuove. L’ultima indagine di Ucimu-Sistemi per produrre, l’associazione delle imprese produttrici di macchine utensili e robot, ha rilevato che l’età media del parco macchine è aumentata di due anni ed è di 12 anni e otto mesi, l’età più alta di sempre. Contemporaneamente cresce la quota di macchine utensili con un’età superiore ai 20 anni, il 27% del totale installato e si dimezza la quota di macchine con età non superiore ai cinque anni anni, risultata pari al 13%. Andiamo incontro al digitale con macchine vecchie.

La banda ultralarga

Stabilito che le imprese per prime devono svegliarsi, rimane il fatto che la governance prevede oltre alla presidenza del Consiglio altri sei ministeri, parti sociali, università e altri soggetti. Non sembra un modello di efficienza anche perché il governo Letta era stato criticato per la governance dell’Agenda digitale che di ministeri ne coinvolgeva di meno. Poi c’è il problema della banda ultralarga sul cui dispiegamento si basa molto del piano. Come ha osservato il ministro Calenda, per raggiungere entro il 2020 l’obiettivo di 100 Mb per metà delle imprese e Mb per tutte bisogna concentrarsi sulle aree grigie dove risiede il 69% delle imprese, mentre il 23% sta in quelle bianche a fallimento di mercato e l’8% nelle nere con più operatori.
In queste aree lavora però un solo operatore e lo Stato non può intervenire in modo diretto: si lavora su investimenti che hanno a loro volta il compito di mobilitare gli investimenti privati. È un terreno scivoloso, perché bisogna passare da Bruxelles sempre attenta quando si parla di aiuti di Stato, anche se l’avvio a dicembre della consultazione con nuovi operatori come Enel Open Fiber dovrebbe ridimensionare il dato sulle aree grigie.

Poi c’è il nodo delle università. Oltre a essere in grado di sfornare studenti con nuove competenze, gli atenei dovranno interpretare il ruolo di advisor tecnologico per le Pmi e occuparsi anche di altro. Non si sa se ne avranno la forza. Nel frattempo in Germania la ricerca di base è seguita dalla Max Planck Gesellschaft con 83 istituti, 22mila dipendenti di cui 13mila scienziati e un budget publico di 1,8 miliardi più gli investimenti privati. Alla Fraunhofer Gesellschaft spetta invece la ricerca applicata con 67 istituti sparsi nel mondo oltre 24mila dipendenti (in maggioranza scienziati e ingegneri) e un budget di 2,1 miliardi di euro che per il 70% arriva da contratti con il settore privato. Aggiungiamo il fatto che, a essere buoni, la Germania ha almeno cinque anni di anticipo rispetto a noi e la gara sembra già finita. Però noi non siamo ancora partiti. E’ giunta l’ora.

 

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