Parola di Burton

Jeremy Burton, Ceo di Serena Software, a tutto tondo sulla gestione dell’It attuale e su quella che verrà.

Serena Software è specializzata sulla gestione del cambiamento lungo il ciclo di vita del software. Per completare il proprio sapere in materia di change management, due anni fa acquistò Merant. Ora serve, nel mondo, 15mila clienti, parlando con loro di soluzioni per gestire il processo di sviluppo e di rilascio delle applicazioni software critiche.

È in relazione, quindi, con un mondo in continua evoluzione, fatto di processi e organizzazioni, asset e persone, tool e applicazioni. Saper farlo Serena lo definisce avere un industry knowledgement. Il suo amministratore delegato, Jeremy Burton, di passaggio in Europa, ci dà la sua visione della realtà.

Come sta evolvendo il ruolo dell’It in quanto risorsa strategica?

«Negli ultimi 5 o 6 anni la maggior parte di dipartimenti It è tornato a preoccuparsi dei principi, accertandosi che i sistemi che mette in opera funzionino davvero. L’attenzione dunque si è concentrata sull’affidabilità, la scalabilità e la sicurezza. In questo senso, il lavoro si è rivolto soprattutto ai data center. In tal modo, però, ci siamo dimenticati che l’It può rappresentare un vero elemento d’innovazione, dunque un fattore chiave di differenziazione dei business. Dal mio punto di vista, nei prossimi cinque anni ci si muoverà di nuovo in questa direzione e i dipartimenti It torneranno a costruire un maggior numero di applicazioni, attività che ultimamente per paradosso sembrava trascurata.»

Si tratta di riprendere coscienza del ruolo dell’It?

«Esatto, ci siamo concentrati troppo sui data center. Lo so bene perché prima di approdare a Serena ho passato gli ultimi sei anni in Veritas e Symantec. Le energie si accentravano sullo storage, la sicurezza e i servizi, le infrastrutture di data center. Era necessario, certo, perché la maggior parte dei Cio erano anche direttori It, e sapevano di dover far funzionare l’infrastruttura in maniera migliore e più economica. Ma ora che l’infrastruttura è affidabile, si comincia a capire che l’It deve rilanciarsi a innovare e differenziare.»

Cosa accadrà al change management?

«Nei prossimi anni interverranno diversi cambiamenti, ma il più importante verterà sul consolidamento e la standardizzazione dei processi nello sviluppo delle applicazioni. Le applicazioni, il loro sviluppo e il change management, sono parte di una realtà frammentata. I dipartimenti It sono relativamente semplici. C’è un gruppo di persone che costruisce cose. Ma chi ci lavora si sente particolarmente creativo, mentre laddove si è attraversata una fase di consolidamento e standardizzazione, come nei data center, le unità sono molto più efficienti e affidabili. Per fare esempi, oggi esistono cinque o sei modi diversi per gestire un codice sorgente, altrettanti di testare e di provvedere alla release. Praticamente ogni sviluppatore si considera alla stregua di un artista, quindi si sente libero di scegliere qualunque strumento l’estro gli suggerisca, ma il risultato è che lo sviluppo di applicazioni diventa imprevedibile. Insomma, spesso vengono costruite le cose sbagliate, e per costruirle ci si mette anche troppo tempo. Questo deve cambiare. Se l’azienda esige che l’It torni a svolgere un ruolo di innovazione, la pressione esercitata sui gruppi di sviluppo sarà maggiore, e saranno costretti a standardizzare il modo in cui raccolgono i requisiti, gestiscono i codici sorgente e i loro cambiamenti, mandano i loro risultati ai data center, e così via. Questo passaggio è necessario, perché altrimenti le aziende finiranno per bruciare molto denaro. Ne conseguirà una miglior visibilità di quel sta accadendo. Lo sviluppo applicativo oggi è una sorta di scatola nera, ci si immettono delle richieste e si prega che ne esca qualcosa, ma non si sa mai per certo cosa, perché non c’è una visione chiara dell’interno. Il motivo è proprio la frammentazione dei sistemi, se si conservano dati in 15 o 16 posti diversi, è molto difficile reperirli e riconsolidarli in qualcosa di significativo.»

Come si può avviare il processo di standardizzazione?

«Bisogna imporlo dall’alto. Torniamo al paragone con i data center. Negli ultimi anni la maggior parte dei fondi destinati all’It confluiva nelle infrastrutture, quindi i Cio o i responsabili dei data center non erano più disposti ad affidare le decisioni nelle mani degli amministratori di sistema, e hanno deciso di prescrivere consolidamento e standardizzazione dall’alto. Ora la maggior parte delle aziende ha iniziato a spendere di più in sviluppo delle applicazioni, piuttosto che nelle infrastrutture, quindi l’identico tipo di pressione si accumulerà in questa direzione. Ai vertici sono stanchi di non avere informazioni, e ne conseguirà fatalmente un obbligo di consolidamento. Lo sviluppo software è uno dei pochi processi di fabbricazione non standardizzati. Henry Ford ci ha insegnato che la standardizzazione è una chiave del successo, ma cent’anni dopo non sappiamo ancora applicarla al processo della costruzione del software. Sarebbe ora di imparare a farlo.»

I vertici allora dovrebbero sviluppare una strategia in tal senso

«Sicuro, ma a prima devono prenderne coscienza. Man mano che se ne renderanno conto, metteranno più pressione all’It, che dovrà consegnare soluzioni. Ci sarà un certo numero di progetti a vuoto per capire che bisogna cambiare, non c’è dubbio, e rientra nella normalità. Il primo passo per risolvere il problema, comunque, è smettere di negare che il problema esista. Poi bisognerà analizzare i processi esistenti e capire come si può arrivare a qualcosa di standardizzato e migliore. A quel punto si sarà in una buona posizione per comprare software in grado di automatizzare il processo. Oggi si automatizza in troppi modi diversi, e questo costa troppo. In futuro la gente capirà che è sbagliato, che bisogna farlo in modo unico, più economico e pronosticabile.»

A cosa sta portando l’integrazione di Mariner nell’offerta di Serena?

«Il nostro software, prima, automatizzava il processo di sviluppo delle applicazioni, ma non si allacciava al project plan. Per fare un paragone, bisognerebbe pensare a un Chief financial officer che dispone di un budget e di un piano, ma non ha dati provenienti dai suoi sistemi finanziari. Nessun Cfo gestirebbe una società in questa maniera, ma è così che ogni Cio oggi gestisce l’It. L’unico modo che ha di ottenere dei dati di fatto è chiedere a qualcuno del project management office di chiamare lo sviluppo e informarsi su come vanno le cose. Il responsabile dello sviluppo di solito risponde che va tutto bene, ma non ci sono dati empirici che passino dal processo di sviluppo applicativo alla pianificazione dei vertici, e così si verifica questa situazione strana in cui c’è un piano senza fatti che lo confortino. È illogico. Con Mariner è in questo punto che vogliamo intervenire, fornendo al Cio, che per ironia è la persona più sprovvista di informazioni di tutte, i dati per la sua pianificazione.»

Quindi cosa accadrà nel medio termine?

«Il 100% del nostro business oggi è concentrato sul sostegno ai dipartimenti dello sviluppo delle applicazioni, in modo che possano diventare più efficienti, attendibili, trasparenti. Nel medio termine, diciamo nei prossimi tre anni, parte dello sviluppo delle applicazioni comincerà ad avere luogo al di fuori dell’It, nelle singole unità business. In altri termini, bisognerà gestire un application lifecycle anche nelle unità come si fa nell’It. Stiamo lavorando a questi strumenti da un paio di anni, aiutando così i professionisti non It a costruire e mettere in opera applicazioni proprie e combattendo di conseguenza l’aggressiva centralizzazione dell’It che abbiamo visto negli ultimi dieci anni. Nel prossimo decennio la parola d’ordine sarà decentralizzare. Le unità di business non sono composte da programmatori che pensano in termini di codici Java, quindi bisogna fornire loro nuove tecnologie per costruire rapidamente applicazioni composte, gestirle, e potenzialmente spostarle su piattaforme Internet per ottenere più rapidamente una piena funzionalità.»

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