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La vision di Dell su tecnologia e green per intercettare la Generazione Z

Una delle caratteristiche intrinseche dell’innovazione è la spinta all’evoluzione. La Gen Z vuole contribuire in prima persona a questo processo evolutivo, ma chiede che questo venga fatto all’insegna della sostenibilità e a fronte di una presa in carico da parte della politica: è quanto emerge dallo studio “Future-Proof” di Dell Technologies in collaborazione con Savanta ComRes. Per certi versi, si tratta della conferma di una sensazione diffusa da tempo, ora però quantificata e confermata da cifre inconfutabili. Nel campione di persone in età compresa tra 18 e 26 anni in quindici nazioni, per sei giovani italiani su dieci anche una minore crescita del PIL a breve termine non rappresenterebbe un problema, a patto che la politica investa in una strategia di lungo respiro per promuovere uno sviluppo futuro più sostenibile.

Il 50% del campione italiano lamenta anche di aver acquisito a scuola solo competenze informatiche di base, mentre il 14% dichiara di non averne ricevute affatto.

Una sorta di dito nella piaga, soprattutto all’inizio dell’era di uno smart working ancora troppo osteggiato dalle nostre parti. Ma anche un importante segnale da parte delle nuove generazioni, interessate più a imparare e a un ambiente di lavoro accogliente rispetto all’aspetto economico.

«C’è un effettivo interesse verso competenze digitali da parte dei giovani – conferma Fabrizio Liberatore, Sales Director Pubblica Amministrazione Locale di Dell Technologies –. Parliamo di conoscenze estese, non limitate al mondo social e all’utilizzo di uno smartphone. Lo smart working implica comunque avere dimestichezza con un PC, con i suoi strumenti e le sue applicazioni».

La volontà non manca, servono gli strumenti

Per gli studenti italiani, la sensazione che ci sia un divario a livello di competenze digitali tra loro e chi studia all’estero è molto chiara. Per colmare il gap, il 40% degli intervistati suggerisce di rendere i corsi di tecnologia più interessanti e disponibili trasversalmente a tutti i livelli dell’istruzione. Il 27% pensa anche che renderli obbligatori fino a 16 anni incoraggerebbe i giovani a intraprendere carriere più orientate alle tematiche digitali. « E’ innegabile che la carenza di competenze digitali sia il problema principale – ribadisce Liberatore -. E’ un tema che riscontriamo anche noi; lo vediamo quando ricerchiamo profili tecnici, ma anche commerciali con competenze avanzate nell’area STEM».

Non è però l’unico argomento caro agli aspiranti specialisti del futuro. Dal punto di vista della Generazione Z, la tecnologia deve essere al servizio della sostenibilità. Cioè, acquisire competenze STEM ha senso se è finalizzato anche a sostenere le tematiche green.

«Bisogna partire dalle prime fasi della formazione. Le competenze avanzate sono oggi il vero differenziale e se guardiamo a temi più recenti come intelligenza artificiale, analisi, elaborazione dei dati o cybersecurity, già oggi siamo in deficit e in futuro ne mancheranno ancora di più».

Gli studi scientifici? Poco attraenti in Italia

Attualmente in Europa, esistono nove milioni di figure specializzate, contro un fabbisogno attuale di venti milioni. In Italia, l’iscrizione alle discipline STEM è il 6,5% sul totale dei laureati, contro il 13% dell’UE.

«Non avere competenze, ma anche professioni e lavori tali da incentivarle, è un grande rischio: significa non essere in grado di supportare la transizione, digitale, ma anche green. È importante ribadirlo, per i giovani le due cose viaggiano insieme».

La buona notizia, o almeno le premesse, tuttavia non mancano. I fondi del PNNR vanno proprio in questa direzione e, a questo punto, riuscire a cogliere l’occasione è soprattutto questione di buona volontà e buona amministrazione. Ammontano infatti a 600 milioni di euro i fondi disponibili per sviluppare nuovi contenuti, corsi e arricchire l’offerta in ambito scientifico ealtrettanto importante, altri 450 milioni di euro destinati alla formazione dei docenti.

Forse non l’ultima, ma sicuramente un’occasione difficilmente ripetibile di risolvere una questione nazionale ormai consolidata al punto da essere accettata fin troppo passivamente«Centinaia di migliaia di giovani vanno all’estero perché trovano indiscutibilmente opportunità migliori. È un doppio danno per l’Italia: in termini di PIL ma soprattutto di opportunità, di strategia».

Più dei soldi conta l’ambiente

Secondo lo studio di Dell. l’aspetto economico non è infatti considerato la leva principale per una scelta. Altrettanto importanti sono la qualità dell’ambiente di lavoro, intesa come flessibilità e opportunità di crescita professionale, quanto questo è innovativo, quanti investimenti in tecnologie vengono fatti, quanto impatto ha l’azienda per cui lavorano sull’ambiente.

Flessibilità, ampiezza di vedute e innovazione a tutto campo sono richieste che sembrano scontate, ma spesso ancora molto lontane da tante realtà in Italia. Dove lo smart working non è frenato da una visione aziendale non proprio aperta, è la carenza infrastrutturale ad essere un problema. Se si aggiunge che ancora troppo spesso ai giovani vengono offerti modelli di lavoro che rispondono alle regole della  GIG economy, non è difficile spiegare la continua ricerca di opportunità oltre frontiera.

«Troppo spesso in Italia, per trovare un posto di lavoro appetibile è necessario trasferirsi nelle grandi città. Un approccio moderno, più smart, aiuterebbe anche a preservare l’economia di tanti bellissimi territori. Ma per farlo servono le infrastrutture digitali e gli investimenti. Questo aiuterebbe magari anche a rendere il nostro Paese più attrattivo per i giovani stranieri che desiderano trasferirsi in Italia».

Tutto questo non significa assolutamente mettere in secondo piano la leva economica. La misura di una remunerazione resta certamente un fattore importante. Non più l’unico però. Intraprendere un percorso di studi impegnativo per poi ricevere offerte di lavoro poco gratificanti è uno scenario capace di stroncare in partenza buona parte del potenziale. Nel nostro caso, con una ulteriore grave penalizzazione in partenza

«Sul fronte gender, in Italia il gap con il resto d’Europa è impietoso. Lo dice anche il World Economic Forum, che ci posiziona al 63° posto su 146 Paesi, distanti non solo dai Paesi nordici, notoriamente più avanti di noi su questi temi, ma anche su nazioni che consideriamo affini, come Spagna e Francia, dove hanno già cominciato ad affrontare il problema, ottenendo buoni risultati».

Secondo stime dell’Unione Europea, nel 2030 ci saranno opportunità di lavoro in ambito STEM collegate alle tematiche green per 2,5 milioni di persone. Posti in parte ancora da inquadrare, ma dove è necessario pensare già oggi ad attirare studenti.

La soluzione passa per un lavoro di squadra. A partire dalle famiglie, che dovrebbero avere una maggiore apertura verso percorsi di studio forse meno promettenti nel breve termine ma certamente più gratificanti nel corso di una carriera, alla capacità del sistema scolastico di anticipare l’approccio alla tecnologia e sviluppare un’offerta adeguata, fino al Sistema Paese, con le relative infrastrutture.

«Abbiamo un’occasione unica con il PNRR – conclude Fabrizio Liberatore -. Abbiamo finanziamenti come nessun’altro Paese in Europa, ma dobbiamo rispettare la scadenza del 2030 ed essere consapevoli di dover recuperare più in fretta di altri. Serve il contributo di scuole e università, serve formazione aziendale e ricerca convogliando le risorse nella giusta direzione e superando il nostro storico problema di attuare una rapida execution».

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