Il reale valore dei big data

Nella gestione dei big data, bisogna concentrarsi sui dati “a valore”. Questo il consiglio di un’esperta, che li classifica in tre categorie: dati transazionali puri, dati di reportistica rivolti ai clienti e dati di reportistica per scopi normativi.

Più che parlare di big data in generale, secondo Susan Feinberg Director of Financial Services Solutions Enablement di Axway ci si dovrebbe concentrare sui big value data, ossia i dati realmente mission-critical per l’azienda.

Molti dei cosiddetti big data, infatti, sarennero “dati duplicati o dati sintetizzati”, ossia dati di intelligence non processabili, che non hanno importanza critica per gran parte delle mission aziendali.

Il settore dei servizi finanziari, per esempio, è da sempre più all’avanguardia rispetto ad altri per quanto riguarda l’uso di grandi volumi di dati per vari scopi, inclusi la segmentazione, le offerte di marketing e l’individuazione delle frodi; le prime iniziative big data in questo settore precedono di diversi anni il momento in cui fu coniato il termine.

Tuttavia, rileva Feinberg, tranne nei casi in cui queste iniziative sono state applicate all’individuazione delle frodi, sottoponendo ad analisi milioni di transazioni e rilevando modelli anomali, la tendenza era quella di concentrarsi su questioni strategiche di più ampia portata, su temi discussi con cadenza semestrale in sede di consiglio di amministrazione, anziché sulle operazioni quotidiane.

Questo settore occupa una posizione di avanguardia ancora oggi, evidenziando un marcato interesse per lo sfruttamento di nuove fonti di dati, principalmente i social media e altri dati pubblici, al fine di soddisfare le esigenze di dati e strumenti di analisi privilegiati dagli stakeholder, migliorare la comprensione dei mercati di riferimento e delle opinioni dei clienti e prendere decisioni di business ottimali in merito a prodotti e servizi.

Se si considera che la gestione di questi dati non strutturati costituisce una sfida senza precedenti, emerge chiaramente la necessità di ridefinire il focus sulla loro governance.
Tuttavia, i dati non strutturati non sono quasi mai verib ig value data mission-critical che assicurano il flusso delle operazioni quotidiane dell’istituzione, istantaneamente, in qualsiasi momento e con grande agilità.

I dati di questo tipo devono essere governati quando sono inattivi all’interno di database controllati dall’istituzione, mentre si spostano tra le applicazioni interne, durante il percorso da un’applicazione al dispositivo di un dipendente o di un cliente e quando sono in transito da tali dispositivi a Internet.

Pertanto, i big value data potrebbero essere meglio descritti come pacchetti di dati piccoli, ma importanti, dati la cui esistenza stessa richiede virtualmente una governance che favorisca transazioni di valore elevato.

Per Feinberg vanno suddivisi in tre categorie, ognuna delle quali richiede attenzione continua, investimenti e governance da parte delle istituzioni dei servizi finanziari: dati transazionali puri, dati di reportistica rivolti ai clienti e dati di reportistica per scopi normativi.

I dati transazionali puri
Non è un’esagerazione affermare che questo tipo di dati fa letteralmente girare il commercio globale. Nei soli Stati Uniti, le istituzioni dei servizi finanziari muovono ogni giorno triliardi di dollari per conto dei propri clienti, il che rappresenta un valore molto elevato in rapporto al corrispondente quantitativo di dati molto esiguo. Basta pensare alla catastrofe informatica di Rbs nel luglio 2012, quando un errore di upgrade del software ritardò l’elaborazione di cento milioni di transazioni di pagamento interessando milioni di clienti, per comprendere la natura mission-critical della categoria di dati transazionali puri.

Dati di reportistica rivolti ai clienti
Importante quanto i dati transazionali puri è la reportistica dei dati finanziari rivolta ai clienti, in particolare a quelli di organizzazioni commerciali e istituzionali per cui la disponibilità di report tempestivi e accurati sulle transazioni ha un valore uguale, se non superiore, all’elaborazione della transazione stessa.
I clienti sono consapevoli del fatto che se non sanno dove si trova il loro denaro, non possono gestirlo efficacemente e una reportistica tempestiva e affidabile da parte delle istituzioni finanziarie garantisce l’ottimizzazione delle loro operazioni finanziarie quotidiane.

Dati di reportistica per scopi normativi
Questi dati stanno diventando oggetto di crescenti preoccupazioni a causa dell’introduzione di una miriade di nuove normative in combinazione con quelle pre-esistenti.
La prontezza, il controllo della qualità delle informazioni e la capacità di integrare dati provenienti da molteplici sistemi isolati sono indubbiamente aspetti mission-critical.
Se l’esistenza di molteplici silo non comporta necessariamente l’esistenza dei big data, i requisiti normativi di questi dati, pochi o molti che siano, li rendono invece big value data.

Cosa accadrebbe se i dati su un cliente raccolti da un’azienda potessero essere elaborati, frantumati e trattati per trasformarli in qualcosa a cui un’altra azienda, di un altro settore attribuisce valore?
Le organizzazioni che detengono grandi volumi di dati personali potrebbero allora riuscire a separare il grano, ossia ciò che ha valore per loro, dal loglio, ossia ciò che ha valore per altri, per poi vendere questi ultimi dati al miglior offerente?

Per Feinberg sono interrogativi affascinanti. Ma pensa che le istituzioni del settore dei servizi finanziari abbiano il dovere nei confronti di se stesse e dei loro clienti di prestare meno attenzione a queste speculazioni e concentrarsi invece sulla protezione dei propri big value data.
Non dovrebbero rilassarsi fino a quando non saranno pronte a sostenere flussi finanziari critici, ad assicurare la conformità normativa e a escludere con certezza che all’orizzonte possa profilarsi lo spettro delle sanzioni e delle restrizioni operative.

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