Equo compenso: il Tar respinge i ricorsi

Nel contempo, tuttavia, precisa che si tratta di un onere imposto e rimanda alla Siae la responsabilità di stabilire le modalità di esenzione per i supporti utilizzati in ambito professionale.

Con una sentenza emessa il 2 marzo e pubblicata nella giornata di sabato, il Tar del Lazio ha di fatto respinto totalmente i ricorsi contro il Decreto Bondi, ovvero la norma introdotta alla fine del 2009 dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali che prevedeva il pagamento di un equo compenso, ovvero un costo aggiuntivo sulla vendita di qualsiasi dispositivo elettronico dotato di memoria, a compensazione dei possibili danni derivanti dall’archiviazione di eventuali contenuti illegali.
Un onere aggiuntivo a carico di tutti i consumatori e introdotto una volta preso atto dell’impossibilità di accertare che un dispositivo o un supporto possano ospitare esclusivamente contenuti leciti.
Un onere che dunque si applica a chiavette usb, computer, telefoni, schede di memoria, dischi, e che si calcola in relazione alla quantità di memoria presente su ciascun dispositivo, indipendentemente (ed è questo il punto sul quale si basavano le opposizioni al decreto) dalla destinazione d’uso del dispositivo stesso.

Il Tar ha dunque rigettato, nonostante indicazioni giurisprudenziali diverse giunte in questi anni anche dalla Corte di Giustizia Europea, i ricorsi di chi ritiene si debbano escludere dal pagamento dell’equo compenso dei dispositivi utilizzati in ambito professionale per archiviare documenti non soggetti alla tutela del diritto d’autore.
Ricorsi respinti, dunque, se pure con qualche distinguo.
In primo luogo, ed è questo un tema sul quale insiste in primis l’avvocato Guido Scorza, nell’intervento pubblicato sul suo blog, l’equo compenso viene oggi, e per la prima volta, definito una imposta.
Nella sentenza si legge infatti. ”Non può che giungersi alla conclusione che il pagamento dell’equo compenso per copia privata, pur avendo una chiara funzione sinallagmatica e indennitaria dell’utilizzo (quanto meno potenziale) di opere tutelate dal diritto di autore, deve farsi rientrare nel novero delle prestazioni imposte, giacché la determinazione sia dell’an che del quantum è effettuata in via autoritativa e non vi è alcuna possibilità per i soggetti obbligati di sottrarsi al pagamento di tale prestazione fruendo di altre alternative”.

In secondo luogo, ed è questo il punto che merita la maggiore attenzione, nella sentenza si legge che ”[…] sarebbe illegittimo l’assoggettamento a compenso di apparecchi destinati ad uso professionale in cui non vi è evidentemente alcuna corrispondenza tra l’equo compenso e l’effettuazione della copia privata che è il presupposto logico dell’imposizione”.
Ne deriverebbe dunque che nessun imprenditore dovrebbe pagare alcun onere per le copie private dei suoi documenti.
Tuttavia, secondo il Tribunale Amministrativo il Decreto contro il quale viene fatta opposizione già prevede una disciplina differente per gli utilizzi professionali.
Il Tar sottolinea infatti che ” La disciplina contenuta nel decreto impugnato, infatti, in linea con le disposizioni del diritto comunitario e nazionale, non impone alcuna prestazione patrimoniale con riguardo all’uso professionale del prodotto ma, al contrario, stabilisce espressamente la necessità di prevedere esenzioni con riguardo all’uso professionale dell’apparecchio”.
Sulla scorta di questo principio, sottolinea di nuovo l’avvocato Guido Scorza, deriverebbe l’opportunità di una azione decisa nei confronti della Siae, titolare dei diritti di riscossione dell’equo compenso, perché stabilisca le modalità di esenzione del pagamento, incoraggiando la stipula di convenzioni con le categorie interessante, tendendo ben presente che l’equo compenso non è dovuto e non già, semplicemente, che può essere recuperato attraverso l’adempimento di complessi oneri burocratici”.

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