Aziende e ricerca devono essere globali

Un’indagine del Politecnico di Milano guarda al sistema dell’innovazione dal punto di vista delle imprese

“Per ognuno dei nostri 7.500 ricercatori ve ne sono almeno duecento in altre parti del mondo altrettanto bravi”. L. Huston vicepresident for Innovation and knowledge di Procter & Gamble la pensa così. E infatti oltre a spendere una montagna di soldi in ricerca con i suoi laboratori, fedele al motto “Connect & develop”, guarda cosa c’è in giro per il mondo negli altri istituti di ricerca. Seguendo questa strada ha trovato a Bologna un brevetto che gli permette di scrivere qualche simpatico messaggio sulle sue patatine con un inchiostro ovviamente innocuo per la salute.
Se un colosso come P&G cerca contatti con altre aziende perché non devono farlo anche le nostre Pmi che di soldi da spendere in ricerca non ne hanno poi così tanti?
La retorica domanda se l’è posta Roberto Verganti, ordinario di gestione dell’innovazione al Politecnico di Milano e direttore dell’Alta scuola Politecnica, che per conto della Camera di commercio di Milano ha realizzato una ricerca con la quale ha esaminato bisogni e servizi a supporto dell’innovazione visti però dal lato della domanda, ovvero da quello delle imprese.
Verganti è partito dall’esame dell’attuale sistema di trasferimento tecnologico che vede da una parte i centri di ricerca e le Università e dall’altra le imprese con in mezzo seicento (solo in Lombardia) aziende che fungono da intermediari. Un modello classico che inizia però a dare segni di stanchezza.

Proprio per questo la ricerca parte dalle imprese cercando in questo modo di cogliere tre aspetti “spesso trascurati da chi si occupa di trasferimento tecnologico: la segmentazione del tipo di utilizzatori (non tutte le imprese esprimono gli stessi bisogni), l’analisi del contesto d’uso (in questo caso il contesto dei processi di innovazione propri delle imprese) e l’interazione (le modalità di accesso e utilizzo del servizio)”.

Un migliaio le aziende lombarde prese in esame che per il 4% rientrano nella categoria “Innovatrici”, il 26% “Aspiranti”, il 2% “Inerti (spente, hanno innovato ma adesso non lo fanno più) e il 68% Inerti (persistenti).
Quel 30% di aziende che innovano, o almeno ci pensano, registrano però risultati concreti sui loro fatturati. L’aumento dei ricavi per gli innovatori è del 45%, del 30% per gli aspiranti e inferiore al 25% per gli inerti. Stesso meccanismo per la crescita del fatturato all’estero. Gli innovatori viaggiano a una crescita del 35%, gli aspiranti sfiorano il 15% e gli inerti stanno sotto il 10%. “Chi innova compete meglio e chi va all’estero è più portato verso l’innovazione” è la sentenza di Verganti.

Gli innovatori sono presenti in tutti i settori ma moda, salute, editoria e costruzioni sono i settori dove maggiore è la presenza di aziende “inerti”.
Fra le imprese che collaborano con gli enti istituzionali per il trasferimento tecnologico gli innovatori prediligono le università, mentre aspiranti e inerti si dirigono soprattutto verso le associazioni di categoria.

Il problema è che più le aziende sono piccole e meno cercano collaborazione con enti istituzionali o consulenti. In teoria dovrebbe essere l’inverso, ma le aziende piccole non cercano link esterni perché non hanno addetti alla ricerca, hanno pochi laureati o personale che riesce a interagire con le università. In pratica, osserva il docente del Politecnico, manca un ambiente pronto a ricevere l’innovazione da parte di consulenti esterni. La gestione dell’innovazione è fondamentale tanto che Verganti cita l’esempio dei filati Maclodio che prima di avviare la collaborazione con il Politecnico hanno capito che dovevano attrezzarsi internamente per gestire la collaborazione con l’Università.
Una collaborazione che spesso, racconta Verganti, inizia con i test per scendere poi verso la fase di sviluppo e ricerca. Un percorso inverso rispetto a quanto dovrebbe essere, ma che rappresenta un’utile indicazione anche per chi deve poi operare scelte di politica industriale a sostegno dell’innovazione delle aziende.
Dal punto di vista dei servizi, però, occorre facilitare l’accesso delle imprese al sistema della consulenza dove in regioni come la Lombardia gli attori pubblici possono evitare il segmento dei servizi di base già affollato di competitor. “Il problema in questo caso – aggiunge Verganti – è di rendere il servizio più accessibile, mentre il focus del Pubblico deve essere centrato sui servizi di punta a sostegno dell’innovazione”.
Non è necessario concentrare la propria attenzione sugli innovatori che sanno come muoversi e hanno già i loro contatti, ma lavorare sugli aspiranti che devono potenziare le loro capacità di assorbimento creare un loro circuito di relazioni e aprirsi al mercato internazionale. Un’apertura che deve però riguardare anche il sistema dell’innovazione. “Il ricercatore migliore non è detto che sia in Lombardia per questo è necessaria un’ottica globale he permetta di poter parlare con ricercatori e docenti di tutto il mondo”.
La globalizzazione deve riguardare anche la ricerca.
Un capitolo a part meita il gruppo delle aziende inerti per alle quali Verganti non lascia molte speranze o comunque non le ritiene meritevoli di un intervento pubblico. La mano invisibile del marcato farà il suo lavoro.

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