Sospensione del rapporto di lavoro III

Maternità: congedo di maternità e paternità L’art. 37 della Costituzione stabilisce che le condizioni di lavoro devono consentire alla donna lavoratrice l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare …

Maternità: congedo di maternità e paternità

L’art. 37 della Costituzione stabilisce che le condizioni di lavoro devono consentire alla donna lavoratrice l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
In ottemperanza a tale principio sono state emanate le leggi 30 dicembre 1971, n. 1204 e 9 dicembre 1977, n. 903.
Successivamente la legge 8.3.2000, n. 53, ha provveduto ad una sostanziale revisione della normativa in parola, ampliando l’area di tutela per le lavoratrici madri ed estendendo al padre lavoratore alcuni diritti propri delle lavoratrici.
Con il D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151, tutte le norme in materia di tutela e sostegno della maternità e paternità sono state raccolte in un testo unico, da ultimo modificato e integrato, a norma dell’art. 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53, dal decreto legislativo 23 aprile 2003, n. 115.
A norma dell’art. 87, D.Lgs. n. 151/2001, sino all’entrata in vigore di nuove disposizioni regolamentari in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità continuano ad applicarsi le disposizioni del regolamento approvato con D.P.R. n. 1026/1976 (con esclusione degli artt. 1, 11 e 21, abrogati dall’art. 86 dello stesso D.Lgs. n. 151/2001).
La disciplina recata dal testo unico si applica a tutti i lavoratori dipendenti – compresi gli apprendisti e i soci di cooperative – di datori di lavoro privati e di amministrazioni pubbliche (art. 2, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151).
La legge 24.2.2006, n. 104, ha esteso la tutela previdenziale relativa alla maternità, a decorrere dal 1° aprile 2006, alle lavoratrici e ai lavoratori appartenenti alla categoria dei dirigenti che prestano la loro opera alle dipendenze di datori di lavoro privati.
Da tale data, i datori di lavoro sono tenuti a versare il contributo per l’assicurazione per la maternità sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti con qualifica di dirigente, nella misura prevista dall’art. 79, comma 1, del D.Lgs. n. 151/2001 in considerazione dei diversi settori produttivi (Inps circ. n. 76/2006).
La legge finanziaria 2008 ha modificato la disciplina relativa all’affidamento e adozione, sia nazionale che internazionale, riconoscendo ai genitori affidatari e adottivi diritti sostanzialmente analoghi a quelli dei genitori naturali in materia di congedi e permessi (art. 2, c. 452-456 L. 24.12.2007, n. 244), come si illustra di seguito.

Congedo di maternità: periodo di astensione obbligatoria – È vietato adibire al lavoro le donne nei seguenti periodi, tassativamente indicati dalla legge (artt. 16 e 20, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151):
– due mesi prima della data presunta del parto, ovvero un mese prima del parto, se l’interessata eserciti l’opzione di cui all’art. 20, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151 (tale periodo va determinato senza includere la data presunta del parto che costituisce il dies a quo per computare a ritroso il periodo in questione: Inps, mess. 12.7.2007, n. 18311);
– se il parto avviene oltre due mesi dalla data presunta, per il periodo intercorrente tra la data presunta e la data effettiva del parto;
– tre mesi dopo il parto, oppure quattro mesi, se l’interessata eserciti l’opzione di cui all’art. 20, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151.
In caso di parto prematuro, i giorni di astensione obbligatoria non goduti prima del parto si aggiungono al periodo di astensione obbligatoria successivo al parto.
Nei periodi di congedo di maternità, non possono essere fruite le ferie e le assenze eventualmente spettanti alla lavoratrice ad altro titolo (art. 22, c. 6, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151).
Flessibilità del periodo (posticipazione)
Ferma restando la durata complessiva dell’astensione obbligatoria, la lavoratrice può scegliere di posticipare il periodo, assentandosi un mese prima del parto e quattro mesi dopo, a condizione che il medico specialista del SSN – o con esso convenzionato – e il medico competente ai fini della prevenzione e tutela della salute nei luoghi di lavoro attestino che tale opzione non arreca pregiudizio alla salute della gestante e del nascituro (art. 20, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151).
Il ricorso all’opzione è immediatamente esercitabile in presenza dei seguenti presupposti:
a) assenza di condizioni patologiche che configurino situazioni di rischio per la salute della lavoratrice e/o del nascituro al momento della richiesta;
b) assenza di un provvedimento di interdizione anticipata dal lavoro da parte della competente Direzione provinciale del lavoro – Servizio ispezione del lavoro;
c) venire meno delle cause che abbiano in precedenza portato ad un provvedimento di interdizione anticipata nelle prime fasi di gravidanza;
d) assenza di pregiudizio alla salute della lavoratrice e del nascituro derivante dalle mansioni svolte, dall’ambiente di lavoro e/o dall’articolazione dell’orario di lavoro previsto; nel caso venga rilevata una situazione pregiudizievole, alla lavoratrice non può comunque essere consentito, ai fini dell’esercizio dell’opzione, lo spostamento ad altre mansioni ovvero la modifica delle condizioni e dell’orario di lavoro;
e) assenza di controindicazioni allo stato di gestazione riguardo le modalità per il raggiungimento del posto di lavoro.
Il periodo di flessibilità può essere successivamente ridotto, ampliando quindi il periodo di astensione ante partum inizialmente richiesto, su istanza della lavoratrice o per fatti sopravvenuti (ad es. per l’insorgere di una malattia). In tal caso le giornate di astensione obbligatoria non godute prima della data presunta del parto, che sono state considerate oggetto di flessibilità, saranno godute successivamente al parto.
Anticipazione e proroga dell’astensione dal lavoro
L’astensione obbligatoria dal lavoro è anticipata a tre mesi prima del parto per le lavoratrici occupate in lavori che, in relazione all’avanzato stato di gravidanza, siano da ritenersi gravosi o pregiudizievoli. Tali lavori sono individuati con decreto ministeriale, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative.
L’astensione anticipata può avvenire anche per disposizione del Servizio ispettivo del Ministero del lavoro – previo accertamento medico – e per la durata dallo stesso determinata:
a) in presenza di gravi complicanze della gravidanza o preesistenti forme morbose che si presume possano essere aggravate dallo stato di gravidanza;
b) quando le condizioni di lavoro o ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla salute della donna e del bambino;
c) quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni.
In caso di interdizione dal lavoro per complicanze nella gestazione o pregresse patologie che si teme possano essere aggravate dallo stato di gravidanza, la relativa domanda si intende accolta decorsi sette giorni dalla sua presentazione ed il provvedimento decorre dalla data d’inizio dell’astensione dal lavoro (art. 18, D.P.R. n. 1026/1976; ML risp. a interpello n. 97/2006 e n. 6584/2006).
Il temporaneo spostamento della lavoratrice a mansioni non vietate può avvenire anche presso altra sede di lavoro ove vi siano condizioni ambientali compatibili, purché ubicata nello stesso comune e con il consenso dell’interessata (M.L. nota 19.7.2006, n. 1865).
L’astensione obbligatoria può essere prorogata sino a 7 mesi dopo il parto, quando la lavoratrice addetta a lavori pericolosi, faticosi e insalubri non possa essere spostata ad altre mansioni.
Il provvedimento è adottato – anche su richiesta della lavoratrice – dalla Direzione provinciale del lavoro.
L’interdizione può essere disposta immediatamente quando il datore di lavoro, anche tramite la lavoratrice, produca una dichiarazione nella quale risulti in modo chiaro, sulla base di elementi tecnici attinenti l’organizzazione aziendale, l’impossibilità di adibirla ad altre mansioni (M.L. nota 1°.6.2006, n. 97). In questo caso la domanda si intende accolta decorsi sette giorni dalla sua presentazione ma, poiché il provvedimento di interdizione presuppone un effettivo accertamento circa l’impossibilità di spostare la lavoratrice ad altre mansioni, l’astensione decorre dalla data del provvedimento stesso (ML lett. circ. n. 5249/2008).
Interruzione della gravidanza
L’interruzione della gravidanza, spontanea o volontaria, nei casi previsti dagli artt. 4, 5 e 6 della L. n. 194/1978, è considerata a tutti gli effetti malattia (art. 19, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151). Ne consegue, per la lavoratrice, il diritto al trattamento di malattia e non di maternità.
In tali casi trova altresì applicazione la speciale tutela di cui all’art. 20 del D.P.R. n. 1026/1976 (non computabilità agli effetti della durata prevista da leggi, da regolamenti o da contratti collettivi per il trattamento normale di malattia, dei periodi di assistenza sanitaria per malattia determinata da gravidanza). Ai fini della prova della morbosità determinata da gravidanza è sufficiente un certificato rilasciato da un medico di base convenzionato, senza necessità di ricorrere ad un medico specialista del Servizio sanitario nazionale (ML risp. a interpello n. 32/2008). È considerata invece come parto l’interruzione spontanea o terapeutica della gravidanza successiva al 180° giorno dall’inizio della gestazione e pertanto la donna ha diritto di fruire dell’indennità e dell’astensione dal lavoro per i tre mesi successivi (art. 12, D.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026). Il divieto di adibizione al lavoro non può essere superato neppure in presenza di esplicita rinuncia della lavoratrice al periodo di congedo obbligatorio post partum, ancorché corredato dall’attestazione del medico curante e/o del medico competente in ordine all’assenza di controindicazioni alla ripresa dell’attività lavorativa (ML risposta a interpello n. 51/2009).
Per data di inizio della gestazione, in entrambe le ipotesi suddette, si intende il 300° giorno antecedente la data presunta del parto.
Divieto di licenziamento
La lavoratrice non può essere licenziata dall’inizio del periodo di gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino (art. 54, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151).
Il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, e la lavoratrice, licenziata nel corso del periodo in cui opera il divieto, è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza, all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano (la lavoratrice illegittimamente licenziata può presentare tale certificato anche in allegato al ricorso con il quale impugna il licenziamento: Cass. 3.3.2008, n. 5749).
L’inizio della gestazione si presume avvenuto 300 giorni prima della data presunta del parto indicata nel certificato di gravidanza (art. 4, D.P.R. 25.11.1976, n. 1026; art. 87, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151).
Durante il periodo nel quale opera il divieto di licenziamento, la lavoratrice non può essere sospesa dal lavoro, salvo il caso che sia sospesa l’attività dell’azienda o del reparto cui essa è addetta (sempreché il reparto stesso abbia autonomia funzionale). La giurisprudenza di merito sinora formatasi ha interpretato la previsione legale in senso funzionale al divieto di licenziamento, ritenendo pertanto sussistente il divieto di sospensione dal lavoro anche nel caso in cui la gravidanza della lavoratrice sia sopravvenuta al relativo provvedimento, facendo venire meno gli effetti della sospensione. La lavoratrice non può altresì essere collocata in mobilità a seguito di licenziamento collettivo ai sensi della L. 23 luglio 1991, n. 223, salva l’ipotesi di collocamento in mobilità a seguito della cessazione dell’attività dell’azienda.
Il licenziamento comunque intimato durante il periodo di tutela legale è nullo e comporta, anche in mancanza di richiesta di ripristino del rapporto, il pagamento a titolo risarcitorio delle retribuzioni successive alla data di effettiva cessazione del rapporto (Cass. 3.3.2008, n. 5749), dovendo lo stesso ritenersi come mai interrotto (Cass. 2.12.2002, n. 17079) e ciò indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda (Cass. 15.9.2004, n. 18537). Recentemente la Cassazione ha esplicitato che la sanzione di nullità colpisce il licenziamento intimato alla lavoratrice in stato di gravidanza anche qualora la stessa non abbia informato tempestivamente il datore di lavoro delle sue condizioni, specificando altresì che il diritto alla retribuzione decorre dal momento della comunicazione accompagnata da presentazione del certificato medico (Cass. 16.5.2005, n. 10139).
La Cassazione ha affermato che è nullo il licenziamento irrogato per cessazione di attività alla lavoratrice madre al termine di un periodo di astensione obbligatoria, ma nel corso del periodo d’interdizione, qualora il datore di lavoro non provi l’impossibilità di riutilizzare la lavoratrice presso una diversa struttura aziendale (Cass. 16.2.2007, n. 3620).
È altresì nullo il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore.

Conseguenze del licenziamento illegittimo
La Suprema Corte (Cass. 15.9.2004, n. 18537) ha enunciato il principio di diritto per cui il licenziamento intimato alla lavoratrice dall’inizio del periodo di gestazione fino al compimento di un anno di età del bambino è, ai sensi dell’art. 2, comma 2, L. n. 1204/1971, nullo ed improduttivo di effetti; il rapporto deve quindi ritenersi giuridicamente pendente ed il datore di lavoro inadempiente va condannato a riammettere la lavoratrice in servizio ed a pagarle tutti i danni derivanti dall’inadempimento, in ragione del mancato guadagno, pur evincendosi, dalla motivazione della sentenza, una presa di posizione più generale sull’inapplicabilità dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori nel caso di licenziamento della lavoratrice in periodo di gravidanza e puerperio.
Nello stesso senso, ancor più chiaramente, si esprime Cass. 1.6.2004, n. 10531, che afferma che dall’entità del risarcimento devono essere detratte le somme percepite per l’attività eventualmente prestata a favore di terzi dopo il licenziamento illegittimo, ossia sancisce l’applicazione del regime di nullità di diritto comune e non invece la tutela speciale, nel relativo ambito di applicazione, dell’art. 18 statuto dei lavoratori (che non ammette detrazioni). Da ciò consegue altresì l’importante conseguenza pratica dell’impossibilità della lavoratrice ingiustamente licenziata nel periodo protetto di optare per la corresponsione delle 15 mensilità previste a titolo di indennità sostitutiva della reintegrazione dall’art. 18, comma 5, L. n. 300/1970.
Onere di impugnazione del licenziamento: termini
Capovolgendo il precedente orientamento, secondo cui al licenziamento della lavoratrice madre non sarebbe stato applicabile l’art. 6 della legge 604 del 1966, che impone l’onere di impugnare il licenziamento entro il termine di decadenza di sessanta giorni (Cass. 20.1.2000, n. 610), la Corte Suprema ha di recente affermato che qualora il datore di lavoro intimi licenziamento per giusta causa, la lavoratrice che intenda contestare la legittimità del licenziamento ha l’onere di effettuare tale contestazione nei modi e nei tempi previsti dalla norma citata ed entro il termine di decadenza di sessanta giorni ivi previsto, anche se assuma che sia stata violata nei suoi confronti la normativa che tutela la maternità (Cass. 9.7.2004, n. 12786; diversamente, Cass. 3.3.2008, n. 5749).

Deroghe al divieto di licenziamento
Il divieto di licenziamento non opera nei seguenti casi:
a) colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
b) cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;
c) ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine;
d) esito negativo della prova.
La giurisprudenza, già concorde nell’intendere estensivamente il divieto di licenziamento della lavoratrice in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, indipendente dalla sua notorietà o meno allo stesso al datore di lavoro, è altrettanto univoca nell’interpretare rigorosamente le deroghe al divieto di cui agli art. 2 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (oggi art. 54, comma 3, D.Lgs. n. 151/2001): per integrare la colpa grave, infatti, non è sufficiente accertare la sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo di licenziamento, ma è necessario verificare, con onere probatorio a carico del datore di lavoro, se sussista quella colpa prevista specificatamente dalla norma suddetta e diversa, per la richiesta connotazione di gravità, da quella cui si riferiscono la legge o la disciplina collettiva per casi generici di infrazione o di inadempimento sanzionati con la risoluzione del rapporto (Cass. 21.9.2000, n. 12503); la cessazione dell’attività va riferita pacificamente ai soli casi di cessazione totale dell’attività dell’azienda (Cass. 18.5.2005, n. 10391), mentre nell’ipotesi di soppressione di un servizio occorre provare l’autonomia organizzativa e funzionale del servizio cessato rispetto agli altri eventualmente da essa gestiti e la sua inutilizzabilità in altra occupazione all’interno dell’impresa (Cass. 8.9.1999, n. 9551). Inoltre, con sentenza n. 12569 del 27.8.2003 la Cassazione ha precisato che la disposizione di cui alla lett. c) dell’art. 2. L. n. 1204/1971, che consente appunto il licenziamento della lavoratrice madre allorché sia ultimata la prestazione per la quale la dipendente è stata assunta o il rapporto sia cessato per scadenza del termine, regola solo l’ipotesi del contratto di lavoro a tempo determinato, ma non riguarda la fattispecie del contratto a tempo indeterminato (nella specie, la sentenza, cassata dalla Suprema Corte, aveva ritenuto rilevante la circostanza dell’utilizzazione delle prestazioni nell’ambito di uno specifico appalto di un servizio di pulizie, nel quale alla società datrice di lavoro era subentrata altra società che aveva assunto tutti i dipendenti eccetto la ricorrente, assente per maternità, senza tenere conto che si verteva in ipotesi di lavoro a tempo indeterminato).
Le lavoratrici stagionali, licenziate per cessazione dell’attività aziendale hanno diritto, fino al compimento di un anno del bambino, sempreché non si trovino in astensione obbligatoria, alla ripresa dell’attività lavorativa stagionale e alla precedenza nelle riassunzioni (art. 59, c. 1, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151). Inoltre il divieto di licenziamento non opera con riferimento alle lavoratrici addette a servizi domestici e familiari, cui comunque oggi è espressamente riconosciuta la spettanza dell’indennità di maternità e la tutela del generale divieto in materia di adibizione al lavoro nei periodi di gestazione e puerperio.
Tutela in caso di dimissioni
La richiesta di dimissioni presentata durante il periodo di gravidanza e fino al compimento del primo anno di vita del bambino deve essere convalidata dal Servizio ispettivo della Direzione provinciale del lavoro, competente per territorio e la lavoratrice non è tenuta a dare preavviso. La convalida è condizione per la risoluzione del rapporto di lavoro (art. 55, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151).
La lavoratrice che si dimette durante il periodo in cui opera il divieto di licenziamento ha diritto alle indennità previste dalla legge per l’ipotesi di licenziamento. Le suddette indennità non sono però dovute quando il datore di lavoro provi che la lavoratrice abbia, senza intervallo di tempo, iniziato un nuovo lavoro dopo le dimissioni e la medesima, a sua volta, non provi che il nuovo lavoro sia per lei meno vantaggioso sul piano sia patrimoniale sia non patrimoniale (ad es. per gravosità delle mansioni o per maggior distanza della sede di lavoro dall’abitazione) (Cass. 19.8.2000, n. 10994).
Visite mediche
Le lavoratrici gestanti hanno diritto a permessi retribuiti per l’effettuazione di esami prenatali, accertamenti clinici ovvero visite mediche specialistiche, nel caso in cui questi debbono essere eseguiti durante l’orario di lavoro (art. 14, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151).
Per la fruizione dei permessi per controlli prenatali, le lavoratrici devono presentare al datore di lavoro apposita richiesta e successivamente presentare la relativa documentazione giustificativa attestante la data e l’orario di effettuazione degli esami.
Affidamento e adozione
Il congedo di maternità spetta alle lavoratrici che abbiano adottato un minore per un massimo di 5 mesi.
In caso di adozioni nazionali il congedo deve essere fruito durante i primi 5 mesi successivi all’effettivo ingresso del minore in famiglia mentre in caso di adozioni internazionali può essere fruito anche prima, durante il periodo di permanenza all’estero richiesto per incontrare il minore e per gli adempimenti relativi alla procedura di adozione.
L’Inps ha chiarito che il congedo di maternità in caso di adozione – sia nazionale che internazionale – spetta per un periodo di cinque mesi a prescindere dall’età del minore all’atto dell’adozione, ed è riconosciuto per l’intero periodo anche nell’ipotesi in cui, durante il congedo, il minore raggiunga la maggiore età. Tali disposizioni si applicano anche quando, al momento dell’ingresso in famiglia, nel caso di adozione nazionale, o in Italia, in caso di adozione internazionale, il minore si trovi in affidamento preadottivo: in tale ipotesi, però, il diritto al congedo ed alla relativa indennità cessano dal giorno successivo all’eventuale provvedimento di revoca dell’affidamento pronunciato dal Tribunale (Inps circ. n. 16/2008).
La lavoratrice che per il periodo di permanenza all’estero in parola non intenda usufruire del congedo o ne usufruisca solo in parte, può chiedere un congedo non retribuito, senza diritto ad indennità. L’ente autorizzato che cura la procedura di adozione deve certificare la durata di permanenza all’estero della lavoratrice.
In caso di affidamento (non preadottivo) di un minore il congedo può essere fruito entro i primi 5 mesi dall’affidamento, per un periodo massimo di 3 mesi; il congedo spetta a prescindere dall’età del minore all’atto dell’affidamento ed è riconosciuto, pertanto, anche per minori che, all’atto dell’affidamento, abbiano superato i sei anni di età (Inps circ. n. 16/2008).
Congedo di maternità: trattamento economico e normativo – Nei periodi di astensione obbligatoria alla lavoratrice spetta un’indennità a carico dell’INPS pari all’80% della retribuzione media globale giornaliera del periodo di paga mensile precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo di maternità (artt. 22 e 23, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151) cui si aggiunge il rateo giornaliero relativo alla gratifica natalizia o alla tredicesima mensilità e agli altri premi o mensilità o trattamenti accessori eventualmente erogati.

Retribuzione media giornaliera
Concorrono a formare la retribuzione gli stessi elementi considerati utili per determinare l’ammontare dell’indennità di malattia.
La retribuzione media globale giornaliera si ottiene dividendo per 30 l’importo totale della retribuzione del mese precedente a quello nel corso del quale ha avuto inizio il congedo. Nel caso in cui la lavoratrice non abbia svolto l’intero periodo lavorativo mensile a causa della sospensione del rapporto di lavoro con diritto alla conservazione del posto per interruzione del rapporto stesso o per recente assunzione, si divide l’ammontare complessivo degli emolumenti percepiti nel periodo di paga preso in considerazione per il numero dei giorni lavorati, o comunque retribuiti, risultanti dal periodo stesso (art. 23, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151).
Per le operaie dei settori non agricoli, per retribuzione media globale giornaliera si intende:
a) nei casi in cui, o per contratto di lavoro o per l’effettuazione di lavoro straordinario, l’orario medio effettivamente praticato superi le otto ore giornaliere, l’importo che si ottiene dividendo l’ammontare complessivo degli emolumenti percepiti nel periodo di paga preso in considerazione per il numero dei giorni lavorati o comunque retribuiti;
b) nei casi in cui, o per esigenze organizzative contingenti dell’azienda o per particolari ragioni di carattere personale della lavoratrice, l’orario medio effettivamente praticato risulti inferiore a quello previsto dal contratto di lavoro di categoria, l’importo che si ottiene dividendo l’ammontare complessivo degli emolumenti percepiti nel periodo di paga preso in considerazione per il numero delle ore di lavoro effettuato e moltiplicando il quoziente ottenuto per il numero delle ore giornaliere di lavoro previste dal contratto stesso. Nei casi in cui i contratti di lavoro prevedano, nell’ambito di una settimana, un orario di lavoro identico per i primi cinque giorni della settimana e un orario ridotto per il sesto giorno, l’orario giornaliero è quello che si ottiene dividendo per sei il numero complessivo delle ore settimanali contrattualmente stabilite;
c) in tutti gli altri casi, l’importo che si ottiene dividendo l’ammontare complessivo degli emolumenti percepiti nel periodo di paga preso in considerazione per il numero di giorni lavorati, o comunque retribuiti, risultanti dal periodo stesso.

L’indennità di maternità decorre dal primo giorno di assenza obbligatoria dal lavoro ed è comprensiva di ogni altra indennità spettante per malattia.
L’indennità in questione non deve essere corrisposta per i periodi di erogazione dell’assegno per congedo matrimoniale a carico dell’INPS o di erogazione di analoghi trattamenti retributivi eventualmente a carico del datore di lavoro.
La lavoratrice che presti attività lavorativa durante il periodo di astensione obbligatoria perde il diritto al pagamento dell’indennità da parte dell’INPS, limitatamente al periodo lavorato. Il trattamento economico di maternità deve essere corrisposto (art. 17, L. n. 1204/1971) anche nei casi di risoluzione del rapporto previsti dall’art. 2 lett. b) e c) della medesima legge che si verifichino durante i periodi di interdizione dal lavoro, come pure, a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale (sentenza n. 405 del 14.12.2001) in caso di licenziamento per giusta causa (Cass. 27.3.2007, n. 7453).
In tema di prescrizione del diritto alla indennità di maternità, la giurisprudenza ha affermato che la speciale prescrizione breve (annuale) prevista, con decorrenza dal giorno in cui le prestazioni sono dovute, dall’art. 6, ultimo comma, L. n. 138/1943 per l’azione diretta a conseguire l’indennità di malattia, si estende alla domanda avente ad oggetto il riconoscimento del diritto al trattamento economico dovuto, in base alla L. n. 1204/1971, per i periodi di astensione obbligatoria e di assenza facoltativa dal lavoro connessi alla nascita dei figlio (Cass. 15.12.2003, n. 19130; per le operaie agricole, vedi Cass. 10.1.2008, n. 276).
Integrazione a carico del datore di lavoro
Il datore di lavoro è tenuto ad anticipare l’indennità per conto dell’INPS e a corrispondere a suo carico l’integrazione eventualmente prevista dal contratto collettivo.
Resta altresì a carico del datore di lavoro il pagamento di tutte festività cadenti nel periodo di astensione dal lavoro, per le operaie, e di quelle cadenti di domenica, per le impiegate.
Computo del periodo di congedo
I periodi di congedo di maternità sono considerati utili ai fini dei seguenti istituti con le modalità e i limiti appresso indicati:


Lavoro a tempo parziale
In attuazione di quanto previsto dal D.Lgs. n. 61/2000 e, in particolare, del principio di non discriminazione, la lavoratrice a tempo parziale beneficia dei medesimi diritti di un dipendente a tempo pieno comparabile per quanto riguarda la durata dei congedi, mentre il trattamento economico è riproporzionato in ragione della ridotta entità della prestazione lavorativa.
Ove la lavoratrice e il datore di lavoro abbiano concordato la trasformazione del rapporto di lavoro in rapporto a tempo pieno per un periodo in parte coincidente con quello del congedo di maternità, per il calcolo della retribuzione globale media giornaliera è assunta a riferimento la base di calcolo più favorevole della retribuzione (art. 60, D.Lgs. n. 151/2001).
L’Inps ha chiarito che la base di calcolo per l’indennità di maternità – relativamente al periodo di astensione obbligatoria – è la retribuzione dovuta per l’attività lavorativa a tempo pieno che la lavoratrice avrebbe svolto se non si fosse assentata in ragione del proprio stato, anziché la retribuzione del periodo di paga precedente l’inizio del congedo (Inps, mess. n. 11635/2006).
Per determinare il valore dell’indennità nei casi di part-time verticale o misto, infine, occorre prendere a riferimento la retribuzione prevista per la lavoratrice part-time nei 12 mesi precedenti l’inizio del periodo indennizzabile per maternità (Inps, circ. n. 41/2006).
Congedo di maternità: adempimenti amministrativi – Prima dell’inizio del periodo di interdizione al lavoro, le lavoratrici devono consegnare al datore di lavoro e all’INPS il certificato medico indicante la data presunta del parto. La data indicata nel certificato fa stato, nonostante qualsiasi errore di previsione (art. 21, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151).
La lavoratrice deve altresì compilare il Mod. MAT. Tale modello va consegnato:
– all’INPS e al datore di lavoro nel caso in cui questi sia tenuto all’anticipazione del trattamento di maternità per conto dell’Istituto;
– solo all’INPS quando l’Istituto provvede direttamente all’erogazione del trattamento di
maternità.
Una volta avvenuto il parto, la lavoratrice deve presentare, entro trenta giorni, il certificato di nascita del figlio, o la dichiarazione sostitutiva ai sensi dell’art. 46 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
La lavoratrice che intende avvalersi dell’opzione di flessibilità di cui all’art. 20 del D.Lgs. 26.3.2001, n. 151, deve allegare al modello MAT di cui sopra le seguenti certificazioni, acquisite nel corso del settimo mese di gravidanza:
a) se l’attività lavorativa non è soggetta all’obbligo di sorveglianza sanitaria ai sensi del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626: un certificato rilasciato dal medico specialista del SSN o con esso convenzionato che, sulla base delle informazioni fornite dalla lavoratrice sull’attività svolta, esprime anche una valutazione circa la compatibilità delle mansioni e delle relative modalità di svolgimento ai fini della tutela della salute della gestante e del nascituro;
b) se l’attività lavorativa è soggetta all’obbligo di sorveglianza sanitaria ai sensi del D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626: oltre al certificato di cui al punto a), una certificazione del medico competente che attesti l’assenza di pregiudizio alla salute della lavoratrice e del nascituro derivante dalle mansioni svolte, dall’ambiente di lavoro e/o dall’articolazione dell’orario di lavoro previsto.
Possono essere accolte, ai fini del diritto all’indennità, solo le domande di flessibilità cui siano allegate certificazioni sanitarie recanti una data non successiva alla fine del settimo mese e attestanti la compatibilità dell’avanzato stato di gravidanza con la permanenza al lavoro dal primo giorno dell’ottavo mese (Inps, mess. 25.5.2007, n. 13279).
Congedo di paternità – In alternativa alla madre, il lavoratore padre può astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice nelle seguenti ipotesi (art. 28, D.Lgs. 26.3.2001, n. 151):
– morte o grave infermità della madre;
– abbandono del bambino da parte della madre;
– affidamento del bambino al padre in via esclusiva.
Per quanto riguarda il trattamento economico e normativo e il divieto di licenziamento si applicano le norme previste a tutela delle lavoratrici madri (vedi sopra).
Affidamento e adozione
Il congedo previsto per le madri adottive o affidatarie che non abbiano chiesto di avvalersene spetta ai padri alle stesse condizioni (art. 31, D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151).
Come chiarito dall’Inps, il congedo di paternità spetta, per tutta la durata del congedo di maternità o per la parte residua, al padre lavoratore dipendente subordinatamente al verificarsi di una delle condizioni di cui all’art. 28, D.Lgs. n. 151/2001 (decesso o grave infermità della madre, abbandono, affidamento esclusivo) nonché in alternativa alla madre lavoratrice dipendente che vi rinunci anche solo parzialmente (Inps circ. n. 16/2008).
Il diritto di fruire di un congedo non retribuito in sostituzione totale o parziale del congedo di maternità per il periodo di permanenza all’estero in caso di adozioni internazionali, è riconosciuto al padre se la madre non ne usufruisce. L’ente autorizzato che cura la procedura di adozione deve certificare la durata della permanenza all’estero del lavoratore.
Adempimenti amministrativi
Il padre lavoratore che intenda usufruire del congedo di paternità deve presentare al datore di lavoro la certificazione relativa alle condizioni suindicate.
In caso di abbandono, il padre lavoratore deve rendere la dichiarazione ai sensi dell’art. 47 del D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
Recentemente l’INPS ha fornito chiarimenti in merito alla documentazione amministrativa che gli uffici periferici possono richiedere al fine di verificare la sussistenza delle condizioni di legge in presenza delle quali è possibile riconoscere il diritto al congedo di paternità (Inps, mess. 4.4.2007, n. 8774).

Sanzioni


Fonti – D.P.R. 1026/1976, D.Lgs. 151/2001, L. 104/2006

 (per maggiori approfondimenti vedi Manuale lavoro, Novecento Media)

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