Vito Di Bari: in Italia manca il sostegno all’innovazione

Secondo il docente del Politecnico mancano gli interventi sistemici per sostenere gli sforzi delle imprese

Attento osservatore del mondo dell’innovazione, Vito Di Bari, docente di Progettazione, gestione e innovazione dei sistemi alla Facoltà di Ingegneria dei Sistemi del Politecnico di Milano e Corporate image all’Università Bocconi, dalle colonne del Sole 24 Ore ogni lunedì racconta il mondo che verrà, cosa succede nei laboratori e nelle università di tutto il mondo. Uno sguardo internazionale che non gli fa perdere il contatto con la realtà delle piccole e medie imprese italiane che racconta in questa intervista.

Fare sistema è una delle frasi più utilizzate negli ultimi due anni. Eppure da questo punto di vista non pare che le cose siano cambiate di molto per quanto riguarda le Pmi. E’ sufficiente Industria 2015 o il nuovo governo deve mettere in cantiere altre iniziative?
“Industria 2015 è un programma coraggioso a sostengo dell’innovatività delle imprese italiane. Credo che, al di là della bontà o meno di quanto in esso è contenuto, l’aspetto importante di questo programma, è stato mettere al centro dell’agenda politica e di quella dei media il tema dell’innovazione come fattore strategico per il futuro del nostro Paese. I contenuti del programma sono coraggiosi per l’impegno che propongono, e spero e confido che questo tipo di propulsione venga mantenuto dal prossimo governo.
In tutti i casi, uno studio di metà 2007 effettuato da Idc ci mostra uno scenario intrigante e frustrante, per le nostre Pmi. Chi eccelle, in Italia, per propulsione innovativa, lo fa solo se riesce a far convergere gli investimenti di R&S su una dimensione superiore all’impresa (si parla di distretti, si parla di gruppi di imprese) e a cooperare su temi di comunicazione (di nuovo, i distretti come soggetto comunicante invece che le singole Pmi). Quando questo accade, si verificano successi notevoli.
Quando non accade, c’è difficoltà, una evidente difficoltà. Ecco perché credo che si dovrebbe lavorare a fondo a supporto dei distretti, e anche supportando le Pmi nel loro processo di presa di coscienza dei nuovi strumenti di comunicazione e informazione. In questo i nuovi strumenti digitali del Web 2.0 rappresentano sicuramente una grande opportunità da cogliere”.


L’innovazione italiana è solo un problema di finanziamenti per le Pmi oppure bisogna ancora creare una cultura dell’innovazione che, aldilà del comparto del made in Italy, stenta ad affermarsi?
Non è così vero che in Italia si fa poca innovazione. Anzi. Una recente indagine di Confcommercio/Censis che ho analizzato chiarisce che è un falso mito quello che dice che nelle Pmi italiane (quindi nel nostro tessuto imprenditoriale più forte e diffuso) si fa poca ricerca. Ben il 50% delle Pmi italiane dichiara che l’innovazione più importante realizzata negli ultimi anni deriva da ricerca svolta internamente; il 3% da rapporti con le università o enti esterni. E il 70% delle innovazioni introdotte si traduce in vantaggio competitivo.
Non manca una cultura dell’innovazione, quello che manca sono interventi sistemici volti a sostenere questa innovazione. Non si fa innovazione senza risorse finanziarie adeguate. Quanto sta accadendo in Italia mi appare quindi quasi un miracolo, che imputo allo spirito dei nostri imprenditori, sempre pronti a lanciarsi in mare aperto”.




Ci sono esempi a livello europeo di Paesi virtuosi nell’incentivazione delle aziende verso l’innovazione?
Ci sono, eccome. E questo deve farci riflettere molto. Non concepisco competizione sullo scenario globale senza innovazione (di prodotto, di processo, di business model) e non concepisco innovazione senza strumenti finanziari atti a supportarla.
Quando Chirac ha lanciato la sua Agenzia per l’innovazione industriale ha stanziato fondi pubblici per 3,7 miliardi di Euro; la Finlandia ha inserito l’innovazione nelle imprese fra le priorità del governo ed è oggi il Paese Ocse con il maggior personale qualificato di ricerca in rapporto alla forza lavoro attiva; il governo spagnolo applica un credito d’imposta per la ricerca che copre fino al 50% dei costi sostenuti. Perché l’innovazione non si fa con le parole. Si fa con le sinergie, si fa però anche con i finanziamenti.
Vorrei vedere strategie forti delle istituzioni a supporto delle Pmi. Come l’Innovation Investment Framework del governo britannico, che progetta a lungo termine (2004-2014).
Se usciamo dall’Europa, i segnali sono ancora più allarmanti. L’ultimo rapporto Ocse ci dice che la Cina è diventata dal 2007 il secondo Paese al mondo per investimenti in innovazione, con all’incirca 136 miliardi di dollari”.


Esiste anche un problema relativo ai bandi pubblici. Le imprese spesso non li conoscono e in qualche caso i finanziamenti vanno a settori proibitivi. E’ giusto quindi invocareinterventi pubblici su settori dove già possiamo vantare un forte know how e che chiedano come precondizione l’unione di gruppi di imprese per ottenere i finanziamenti?
Quello dei finanziamenti pubblici è un tema che mi lascia spesso perplesso, per la quantità di fondi disponibili non richiesti dalle imprese. E’ una responsabilità che imputo a metà, fra chi stanzia questi fondi che dovrebbe forse semplificare le procedure di accesso e la pubblicizzazione di queste disponibilità finanziarie, e le imprese, che temo spesso non si informino a sufficienza su queste tematiche.
Del resto, non è un caso, se molti finanziamenti vengono spesso recepiti solo dalle grandi imprese. Questo perché le piccole e medie non sono attrezzate culturalmente e organizzativamente per formulare proposte concrete per la partecipazione ai bandi. Ecco, credo che come in altri Paesi, anche da noi servirebbero agenzie pubbliche che agiscano come “sportelli informativi” sempre più capillari e presenti, per guidare l’imprenditore a fare proprio una nuova opportunità. E’ importante, d’altronde, concentrare gli interventi di finanziamento in due direzioni: prima di tutto, il supporto del Made in Italy e di tutto quel vantaggio competitivo che non possiamo permetterci di disperdere. Secondariamente, il supporto a quelle aree che possono marcare la differenza nei prossimi 5-10 anni (in una visione più strategica).
Ad esempio, mi riferisco alle energie rinnovabili (dove già vantiamo eccellenza, su progetti sull’eolico ad esempio) e alle tecnologie della comunicazione innovativa. Sono comparti in cui non possiamo permetterci di non essere allo stesso livello di altri Paesi. Su questi due punti cercherei di concentrare gli sforzi”.



E’ corretto secondo lei sostenere che le imprese italiane sembrano poco inclini all’Ict? Fa parte della loro cultura l’innovazione di prodotto, ma quando si parla di processo sembrano più lente a comprenderne i vantaggi. Spesso quando si parla con qualche azienda di software la frase tipica è che il maggiore concorrente di un applicativo è il tornio.
Ora, non tutta la ricerca cui fa riferimento lo studio Censis è mirata al prodotto, c’è anche innovazione di processo. Solo che, sapete, quando la dimensione media di un impresa italiana è sotto le dieci unità, mi pare ovvio che ci si interessi molto di più al proprio prodotto che non ai processi. Invece, mi piace pensare che di questa innovazione di processo, le imprese italiane possano dotarsi grazie all’intervento dei Distretti. Che mediano fra il mercato aperto e la singola impresa, rappresentando il giusto livello intermedio che permette di mettere a fattor comune le esperienze e di condurre indagini molto approfondite su una intera filiera produttiva.
Ai distretti andrebbe quindi, a mio modo di vedere, dato ancora più rilievo. Perché la cosa che sorprende di più è, infatti, che ben il 72,5% delle Pmi la ricerca di cui dicevo poco fa, se la fa con i soldi propri. Ecco che interventi sistemici attuati a favore dei distretti permettono di dare fiato a tutta la PMI italiana che in essi si raccoglie”.



Wiki, blog, social network, in poche parole il Web 2.0. Quanto può essere utile alle Pmi nostrane?
Tanto. Perché se oggi associamo il concetto di social network, ad esempio, ai famosi casi come Facebook e MySpace, è però vero che queste reti sociali nel web – dopo l’euforia della prima ora – si stanno dando connotazioni molto più orientate al business. E stanno così nascendo network che sono veri e propri marketplace digitali in cui è possibile fare incontrare domanda e offerta anche fra soggetti di aree geografiche molto lontane e che fino ad oggi potevano entrare in contatto solo grazie alle fiere di settore o a relazioni interpersonali. Ci sono diverse potenzialità ancora inesplorate in questi strumenti 2.0 che possono rappresentare un vantaggio concreto per le Pmi.
Tutte quelle che vendono prodotti che possono andare direttamente al consumatore, possono trovare ad esempio un canale di vendita diretto su scala globale, e in più “parlare con i propri clienti” nel proprio blog aziendale. Nel libro “Web 2.0” che è appena stato pubblicato per Il Sole 24Ore ci siamo interrogati a fondo su questo punto, e tutti concordiamo sul fatto che per le imprese e per il business 2.0 significhi nuove opportunità, e questo vale soprattutto per i piccoli soggetti che possono beneficiare di accesso diretto ai mercati e ai consumatori senza mediazioni. Mercati globali, e consumatori di ogni Paese. Questa rappresenta, a mio modo di vedere, una sfida che vale la pena di essere pienamente colta e affrontata dai nostri imprenditori. Prima di tutto capendo come il 2.0 funziona, quali vantaggi può apportare al proprio business, e come introdurlo in modo semplice nei propri processi aziendali, ad esempio sostituendo la partecipazione ad alcune costose fiere con l’accesso ad un marketplace globale, gestibile dall’ufficio vendite direttamente dal proprio pc”.



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