
I primi esperimenti partono dnegli anni Novanta e non sempre sono convincenti. E ora sta arrivando il momento dei classici
Il rapporto fra cinema e videogiochi è iniziato presto. Con timidi tentativi come la trasposizione di Indiana Jones e addirittura con “Super Mario Bros” che nel 1993 ha fatto il grande salto. Poi è stata la volta di Lara Croft che ha lanciato l’attrice Angelina Jolie e ha incassato 131 milioni di dollari, “Resident Evil” (110 milioni il primo, 129 il secondo episodio) e “Final Fantasy” che a fronte dei 137 milioni investiti ne ha fruttati però solo 130. “La materia da trattare è scivolosa – ha spiegato a Repubblica John Wells uno dei produttori di Doom – il pubblico è abituato a dirigere l’azione del gioco non soltanto a essere uno spettatore e questo crea molti problemi” .
Spiegazione forse un po’ debole che non convince. Molto più interessante è l’opinione di Adrian Askarieh, sceneggiatore di “Spy Hunter” secondo il quale “per anni i film di questo tipo sono stati lasciati a piccole produzioni e registi di media levatura. Quando sono arrivati i grandi budget e le grandi firme sono arrivati anche i grandi film”. Ipotesi molto più plausibile anche se il successo non è automatico come è il caso di “Final Fantasy” che non era però il soggetto più facile da trattare in un film.
Nel frattempo la situazione si è evoluta e alcuni hanno iniziato a fare il percorso inverso. Se la strada videogioco-film fa ormai parte dello sfruttamento del prodotto che non esaurisce più la sua vita sullo scaffale, ora si prova anche la strada contraria, dal film al videogioco. “Godfather”, per esempio, “Il signore degli anelli” recentemente, oggi “King Kong” e domani “The Warriors” un classico della fine degli anni Settanta. Il fatto che le licenze in qualche caso non siano state sfruttate a dovere ha creato un po’ di sospetto fra i consumatori, certo è che le major del cinema possono trovare nuovi sbocchi per prodotti ormai da tempo alla fine del ciclo di vita e i videogame nuova linfa per una creatività negli ultimi tempi un po’ appassita. Uno scambio win-win (positivo per entrambi) come si dice oggi nello slang aziendale a patto che a vincere e a divertirsi sia anche il consumatore.