Twitter, ovvero il dono della sintesi

Una virtù da coltivare dentro e fuori il 2.0.

Pare che un paio di volte l’anno si senta il bisogno di una nuova esplosione di entusiasmo attorno al Web 2.0, quindi prepariamoci a un nuovo tormentone.
 L’inverno scorso è toccato a Facebook occupare la scena. Ora lo usano tutti o quasi, ma il clamore di contorno è scemato e il fenomeno, pur coi suoi alti numeri, è ora considerato normalità.

Il prossimo caso sarà Twitter? Lo strumento è conosciuto, come peraltro lo era Facebook prima del boom planetario e nazionale.
Ma in questi giorni si raccolgono segnali di un movimento di persuasione in atto: blogger, opinion maker, colleghi e divulgatori, come si dice in gergo ciclistico pare stiano preparandogli la volata.
Non passa giorno che da qualche parte si legga o si senta dire quanto è utile Twitter, simpatico, comodo e financo discreto, con i suoi 140 caratteri contati.

Questa settimana Time gli ha dedicato la copertina, circostanza che ha fatto ricordare i bei tempi andati (1983) quando raffigurò il computer come personaggio dell’anno, e l’utilizzo dello strumento nel dopo elezioni iraniane è oggetto di cronaca.

Se non consideriamo che c’è chi non si è fatto pregare a coniare il neologismo “twittare”, ciò che colpisce favorevolmente dello strumento è l’obbligo di sintesi.
Sempre gradita nelle circostanze importanti, ancora di più lo è al di fuori di queste. Occupare il tempo non vuol dire perderlo.
Considerazione da collegare, qui, a un recente studio della Harvard Business Review, da cui emerge che il 90% del traffico della piattaforma di microblogging è generato da un utente su dieci. Se usato bene, al netto degli eccessi che caratterizzano tutti i fenomeni di massa, lo strumento potrebbe anche lasciare un buon retaggio, al di là del 2.0.

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