Testimone d’innovazione It

Un caso esemplare: quando l’Italia insegna agli Usa

Giovanni Lanfranchi è a capo del laboratorio software che Ibm ha a Roma, una struttura fatta da 550-600 persone. Il numero è dinamico, in obbedienza alla logica end-to-end, che fa sì che non ci siano silos di persone, blindate in ruoli, ma percorsi di crescita attorno alle idee. Il laboratorio capitolino serve tutto il mondo: crea soluzioni e prodotti anche per gli Usa. Ma, soprattutto, a loro “insegna” come si fa, oggi, un moderno laboratorio di innovazione. Ce lo facciamo spiegare da Lanfranchi.


Quante anime ha il laboratorio?


«Tre. Una, ortodossa, di Ricerca e Sviluppo. Impiega dalle 300 alle 350 persone che creano prodotti software. È l’anima, quindi, della creatività. La seconda è quella dei servizi, fatta da un centinaio di persone. Abbiamo deciso di inserire i servizi nel laboratorio per creare un “loop” virtuoso con le attività sul campo. È l’anima della pratica.


La terza è quella, più indefinibile e immateriale, del cosiddetto customer facing. Tradizionalmente nei laboratori c’è un frattura fra creazione e mercato. Questa struttura è un collante fra Lab e processi di business. Sono persone che fanno consulenza su progetti It, fanno “proof of concept”, prove sul campo. È l’anima plastica».


È più un laboratorio italiano, americano o indiano?


«Escludiamo che sia indiano. Ci differenziamo, non abbiamo il costo in testa, non facciamo mass production. Anzi, io uso i laboratori indiani per fare cose in offshore, per liberare le teste e dedicarle al pensiero di cose nuove. Per esempio, due anni fa abbiamo concepito il motore virtuale per il workflow management. Per realizzarlo avevamo bisogno di liberarci dai costi e quindi abbiamo passato ai laboratori indiani del lavoro che per noi era diventato commodity. Ci sentiamo abbastanza vicini al modello americano, perché siamo depositari delle idee dall’inizio alla fine. Siamo testa e mano insieme. Negli ultimi tre anni abbiamo fatto progressi in qualità e processo, pertanto non possono più tacciarci di essere naif. Siamo, invece, del tutto italiani nel senso che riusciamo a inventare. Siamo bravi a tradurre rapidamente in pratica l’idea. Gli americani sono più ingessati. Noi abbiamo l’agilità».


Ci vogliono spalle forti e coperte
per innovare?


«Avere le idee è un prerequisito fondamentale. Ma occorre anche forza. Non necessariamente serve avere la potenza economica di Ibm. Ci vuole, piuttosto, un microsistema di sostentamento, che consenta di fare fiorire l’idea, di crescere. Serve un circolo virtuoso. Quattro anni fa il laboratorio di Roma aveva la stessa disponibilità di capitale di quella attuale. Ma faceva l’indiano, nel senso che lavorava su produzioni di massa. Oggi, invece, ha creato un clima di favore per l’espressione dei talenti. Che poi è proprio quello che manca all’industria italiana».


Come si crea il circuito idea-pratica?


«Tipicamente in passato un prodotto era sviluppato sulla base dei requisiti di mercato. Dal product manager arrivavano indicazioni allo sviluppo, poi si faceva il collaudo, infine lo si portava al cliente. Negli ultimi due anni abbiamo introdotto un metodo, ora replicato anche dagli altri laboratori Ibm, che ci porta lontano dai compartimenti stagni, ci libera dalla prigionia delle funzionalità da rispettare. Noi abbiamo creato una metodologia di sviluppo che esula dai requisiti, ma descrive, modella, per esempio, via Uml, il processo del cliente. Che se poi vuole mutare il processo, riusciamo a cambiarlo velocemente. Quindi non si va dal cliente con il processo in mano, alla fine di un percorso, ma ci si va subito. Al T zero».


Come si insegna alle persone
a comportarsi così?


«La cosa difficile è fare assimilare una metodologia nuova alle persone. Non lo si fa con i diktat. Servono i cosiddetti first mover. Noi abbiamo iniziato non toccando nulla nel funzionamento complessivo del laboratorio, ma selezionando un team pilota, fatto da persone illuminate, che hanno lavorato su un progetto con una metodologia a quel tempo non convenzionale. Con in mano i benefici misurati, le stesse persone hanno diffuso la metodologia agli altri, innescando una reazione a catena, una contaminazione culturale».


Come si reclutano le persone per fare innovazione?


«Con le università, facendo progetti comuni che fanno emergere i nuovi talenti. Con assegnazioni internazionali, mediante scambi biennali di persone fra Italia e Usa. Con la rotazione del lavoro: in un laboratorio del genere non esiste che uno faccia solo lo sviluppatore tutta la vita».


Il tempo è una variabile che influisce negativamente sull’innovazione?


«Una volta erano tutti in ritardo. E lavoravano male. Non avevano mai tempo. Anche perché, diciamolo con una battuta, il tempo è come l’elastico delle mutande. Se invece c’è la prioritizzazione giusta, c’è tempo per fare tutto e bene e ce n’è anche per se stessi».

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