Terra promessa digitale

Un milione (quasi) di posti di lavoro nell’Ict europea. Sono però da forgiare, in un cloud che azzera le rendite di posizione.

A Bruxelles si dice che all’Europa entro due anni serviranno 900mila persone capaci di lavorare nel digitale.
Ora non ci sono. Meglio: non hanno le competenze adeguate.
Un anno fa la stima era inferiore. Il trend è quindi in crescita e ci sta che si superi il milione di posti di lavoro necessari.

C’è da guardare con interesse alla questione, ma non da esultare.
Intanto sono stime. Realistiche, provenienti da buone fonti, ma pur sempre stime.

Poi fanno riferimento a un mercato, unico, libero e aperto, in cui ormai non esistono rendite di posizione.

Insomma, non si lavorerà nel digitale europeo perché si è italiani, portoghesi, francesi o svedesi.
Lo si farà perché si sarà capaci.
E qui sta il punto.
Sul mercato globale esistono già capacità non collocate e il mercato europeo può diventare per loro terreno fertile.
Tantopiù che la costituzione del terreno si presta a esserlo, essendo basata sul cloud.

La grande coalizione per il lavoro digitale in Europa
fa presa sull’immaginario.
Il nome è abbastanza roboante da piacere ai tedeschi, che a quanto rivela Gianluigi Castelli, che ha esaminato con noi ogni angolo del tavolo, hanno già occupato molte delle sedie disponibili.

Si parla di impegni concreti. Testualmente, “di offerta di nuovi posti di lavoro, tirocini, formazione, finanziamenti di start-up, corsi universitari gratuiti online“.

Bene. Se ne parla, però, all’europea, cioè nel modo in cui l’Ue sa fare meglio: pianificando.

L’agente di trasformazione dell’idea in un oggetto pratico è però affidata a un milieu in cui chi fa le norme necessariamente deve chiamare al tavolo il mercato, per la politica del fare.

E quel mercato porta la propria cifra: il guadagno.

Quindi, è ragionevole che si sia capito che parte del futuro economico sta nel digitale (un’altra, altrettanto fondamentale, sta nel rapporto che avremo con la terra, il suolo che occupiamo).

Ora serve far capire al mercato che deve rifare proprio quel concetto di investimento che storicamente ha avuto e che presuppone che i raccolti non si mietono in un trimestre, e nemmeno in un anno o due.

La questione aperta, allora, è: ci starà?
Se la risposta è affermativa, siamo davvero sulla buona strada.
Nel caso non lo fosse stiamo perdendo tempo, illudendoci di determinare l’andamento del mondo con la qualità delle nostre idee. Se ancora riusciamo a farlo, da italiani ed europei, è per una questione puramente numerica.

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