Spendi spandi Effendi

Ovvero: l’altra faccia dell’outsourcing

27 novembre 2003 Succede che negli Usa in questo periodo se la stiano particolarmente menando con la storia dell’outsourcing offshore, con tale locuzione sottendente non le installazioni caraibiche fiscalmente paradisiache, ma tutto ciò che di operativo vien fatto al di fuori dai confini statunitensi.
Non di Cayman (Island), quindi, piuttosto di “caimani” dell’organizzazione del lavoro si dovrebbe parlare.
C’è che, da Sam Palmisano in giù, molti ceo dell’Information technology si stiano ponendo la questione del lavoro “fatto fare fuori”, lanciando allarmi, sia alla propria comunità It, inerenti il depauperamento di expertise interno, sia alle politiche sociali, inerenti uno stato di disoccupazione strisciante.
Ma non è solo questo.
La tendenza a delocalizzare attività in paesi nell’endemica situazione dell’essere “in via di sviluppo” è una costante dell’economia anglofona (Usa e Uk).
Come in India, terra, da sempre, di grandi creatori di software, che unisce al sale in zucca un tessuto sociale che richiede emolumenti pari a un terzo di quelli statunitensi.
Noncuranti dei moniti di Palmisano, per esempio, di recente Cognos, Emc e Oracle hanno pianificato investimenti, anche di portata quinquennale, sotto il Taj Mahal.
Tanto che si può parlare di Bangalore come nuovo polo tecnologico mondiale, disposto ad accettare le spese della tecnologia Usa e ricambiare con software ben fatto e poco costoso.
C’è anche chi, come Dell, va in senso contrario, smantellando un centro di supporto indiano, un po’ per motivi di lingua (forse di accento), disponibilità di personale e, magari, connessioni. Ma si puo’ parlare più di riconversione industriale che di bocciatura.
Comunque la si giri, ci sono due fattori: l’effendi americano spende perché legge nel contesto esotico opportunità per se. Poi il Gange gli restituisce qualche coccodrillo con cui piangere posti di lavoro.
Aveva ragione Rino Gaetano: è una vita d’inferno.

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