Skillshortage in calo, ora a preoccupare è lo skill gap

È quanto emerge dall’Osservatorio promosso da Microsoft e realizzato da NetConsulting, in cui si ribadisce come la mancanza d’investimenti si traduce in perdita per l’intero sistema Paese

«Il disallineamento verificatosi nel 2000,
quando la mancanza di figure professionali per il mercato dell’Information &
Communication Technology si presentava come un problema prettamente numerico, si
è trasformato in un ben più grave problema di tipo contenutistico. A
mancare oggi, sul mercato di casa nostra, sono profili professionali nuovi
e di alto livello
». Così ha esordito
Giancarlo Capitani, amministratore delegato di NetConsulting, la società di
ricerca che, per conto di Microsoft Italia, ha realizzato un Osservatorio
congiunturale, su base semestrale, chiamato a indagare su competenze,
dinamiche e skill shortage dell’universo It nostrano. E se a preoccupare è la
qualità, e non più la quantità, all’interno del sistema Paese sono due i dati
negativi che prendono corpo. Da un lato l’impossibilità di imparare dal
passato, dall’altro l’innalzamento di nuove barriere economiche per le Pmi,
sempre più impossibilitate a sobbarcarsi degli oneri per assumere figure
professionali altamente specializzate e, quindi, sempre più costose. La carenza
di questo genere di risorse provoca, neanche a dirlo, l’impossibilità per
le aziende di generare business e, di conseguenza, comporta una potenziale
perdita nel mercato It che impatta negativamente sul Pil nazionale. Basti
pensare che, secondo dati NetConsulting, alla fine dell’anno in corso il mancato
mercato It derivante dallo skill shortage genererà perdite per tre miliardi di
euro, pari all’15,1% del mercato It registrato nel 2001.

Le contromisure da adottare
Una
volta identificato il problema occorre proporre nuove soluzioni. Tra queste gli
investimenti in formazione a cura del settore privato. Investimenti che, a dirla
proprio tutta, impallidiscono se confrontati con il resto dei Paesi europei. Non
a caso, secondo gli ultimi dati Istat, solo il 26% del totale delle imprese
italiane investirebbe in corsi di formazione, contro una media superiore al 90%
registrata in nazioni come Danimarca, Irlanda e Paesi Bassi. Come se non
bastasse, l’Italia risulterebbe, inoltre, caratterizzata da un divario notevole
tra la percentuale di utenti di personal computer all’interno delle aziende, e
la corrispondente percentuale di utenti dotati di competenze informatiche.
«E se il Governo italiano risponde a questo genere di problematiche con
provvedimenti legislativi del calibro della Tremonti bis, il suggerimento per le
piccole e medie imprese è quello di cominciare a interpretare le competenze
professionali come asset per l’azienda in grado di generare un considerevole
ritorno dell’investimento, e non esclusivamente come un vantaggio per il
dipendente
», ha concluso Capitani. Insomma, compiuto il primo passo
per acquisire nuove competenze bisognerebbe non solo mantenerle, ma rinnovarle
costantemente. Dal canto loro, fornitori di tecnologie del calibro di Microsoft
dovrebbero restare vincolati al ruolo di fornitori di contenuti, metodologie,
processi abilitanti e, non da ultimo, di modelli di verifica delle diverse
competenze acquisite, attestati da esami di certificazione. 

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