
Non è solo questione di idee, di finanziamenti e di infrastrutture. Per fare della vera e propria innovazione ci vuole un salto culturale. E anche un po’ di coraggio
Innovazione necessaria. Psicologicamente ed economicamente necessaria
per l’Italia e per gli italiani. è questa la chiave di lettura
che potrebbe fare la differenza in un contesto di “depressione”
imprenditoriale nel settore Ict. Avere un’idea innovativa (come
la creatività tutta italiana ha sempre permesso). E dopo averla
avuta, incubata e progettata, studiandone nei minimi dettagli la praticabilità,
adoperarsi per applicarla. Per far sì che diventi un business.
Si può? No, oggi si deve.
Non saremo i primi a parlarne e neanche gli ultimi. Ma intanto guardandoci
in giro si vede che il fermento c’è. E fra qualche mese (dal
9 all’11 febbraio 2006) ci sarà anche una manifestazione
(una vera e propria fiera) sulla piazza di Udine che si farà carico
di concentrare tutte le attività sul tema dell’innovazione.
Questa si chiama InnovAction ed è stata voluta dalla Regione autonoma
Friuli Venezia Giulia in collaborazione con l’Università
degli Studi di Udine con l’intento di catalizzare i processi innovativi
e le aziende o, magari, solamente le menti che ne danno vita.
Intanto, anche i cittadini si dicono pronti all’innovazione. Secondo una
ricerca intito-lata "Population Innovation Readiness" (analisi
condotta dall’Eurobarometer): il 57% della popolazione
del Vecchio Continente (sia Ue che zone limitrofe) si dice essere sensibile
all’innovazione. E tra questi ci sono, ovviamente, anche gli italiani.
Gli stessi che potrebbero beneficiare dei finanziamenti messi a disposizione
dal Governo per un ammontare di 60 milioni di euro per favorire la competitività
delle imprese, l’alfabetizzazione degli italiani (certo che, se si parla
di innovazione e poi si scopre che c’è ancora da compiere i primi
passi la cosa si mette male) e l’efficienza per il settore della Pa.
Sicuramente, fino a oggi l’Italia non ha brillato. Innovazione e
diffusione della tecnologia vanno troppo di pari passo e se diamo retta
al quarto rapporto dell’Enea dice che il nostro Paese è agli
ultimi posti in Europa per quanto riguarda la competizione tecnologica
internazionale. Le cause: poco interesse delle aziende a investire in
ricerca e sviluppo. Mancherebbe, inoltre, la cultura del brevetto. Se
ne sottoscrivevano pochi prima, ma ora la ricerca parla di un’ulteriore
contrazione di brevetti per milione di abitanti.
Che fare? Uscire dal "sistema" potrebbe essere la risposta.
Niente di fuorilegge. Per carità. Piuttosto, liberarsi il più
possibile da orpelli geografici, nazionali (tanto più se si tratta
di una nazione come abbiamo visto ancora molto reazionaria alla tecnologia).
Ovvero mettere in atto ciò che stiamo vivendo indirettamente: globalizzare
un’idea innovativa ora si può e si deve.
A un recente convegno organizzato da Cisco si è
parlato molto di innovazione. E in una tavola rotonda, Roberto
Schisano, presidente di Getronics, anche se
ha preso la parola per ultimo (ma la sequenza degli interventi era in
rigoroso ordine alfabetico), ha affermato un fondamento: «Le
storie di successo del momento sono indipendenti dal sistema in cui sono
nate». Ha ragione: sono indipendenti dalle vecchie infrastrutture
(qui intese non solo come tecnologiche). Sono legatissime, invece, a un
pensiero moderno. Ma allora come deve essere questo pensiero? Deve essere
forte di un potere rinascimentale. In molti fanno riferimento a quell’epoca
storica affinché l’Italia riprenda una buona via.
Anche il padrone
di casa del CiscoExpo lo ha affermato: «La lezione essenziale
del Rinascimento – ha detto Stefano Venturi, amministratore
delegato di Cisco Italia – si è basata sull’audacia di fare
cose nuove, di inventare strumenti mai visti, di intraprendere percorsi
inesplorati». Ma per far questo non basta introdurre nuove
tecnologie in azienda. Alfredo Ambrosetti, presidente
Club Ambrosetti, fa notare che se si introducono nuove
tecnologie in «un’azienda "vecchia", non si fa altro
che avere un’azienda vecchia più costosa». è
questione di nuovo orientamento culturale per tutta la catena del valore:
per i fornitori e per i clienti. Ma è anche di senso civico.
Se
un Mario Moretti Polegato, meglio conosciuto come l’uomo
Geox, avesse gettato la spugna e si fosse messo in mano a finanziamenti
esteri, la sua azienda sarebbe ancora da considerare un successo italiano
o no? Poi è vero ci sono «pubbliche responsabilità»
come ancora Ambrosetti definisce. «Occorrono incentivi al lavoro.
Occorre iniziare dalla scuola». E qui ancora Schisano opera
di fioretto: «I nostri figli arrivano a 30 anni per entrare
nel mondo del lavoro. Ne hanno 23 o 24 di anni negli altri Paesi europei».
Così l’innovazione, prima di farla sui prodotti e sui processi,
la dobbiamo fare nelle nostre teste. Poi, forse riusciremo a entrare nel
merito della burocrazia. Una delle prime nemiche dell’innovazione, se
è vero quanto ha affermato Luigi Gambardella,
presidente di Punto.it, che gli attuali ostacoli agli
investimenti sono «l’eccessiva regolamentazione. Non solo italiana,
ma europea».
Poi si faranno i conti con il denaro, spesso vigliacco in tema di innovazione.
Che se però manca, è veramente un guaio. Giampio
Bracchi, presidente Fondazione Politecnico,
non usa mezzi termini: «In Italia non c’è denaro per
le start up di aziende di ricerca. Non ci sono venture capital su nuove
aziende tecnologiche». Il ministro Lucio Stanca
lo sa e risponde: «Prima o poi riavremo anche un fondo tecnologico
di 100 milioni di euro per incentivare il finanziamento nelle imprese
tecnologiche». Nel frattempo – sempre durante il convegno Cisco
– il Ministro ragiona su «due bandi attivi per 630 milioni di
euro, per le innovazioni di processo e di prodotto, a cui possono concorrere
le imprese con un finanziamento rotativo», che significa il
10% a fondo perduto, l’80% a tasso agevolato (0,5%) e il restante 10%
a tasso di mercato. Sempre che chi fa innovazione riesca bene a districarsi
tra un finanziamento e l’altro.