Rightshore, nuovo approccio per l’outsourcing

Capgemini ha elaborato un proprio modello per l’esternalizzazione dell’It, che si basa su un network mondiale di centri onshore, nearshore e offshore, per ottimizzare i costi

Da anni gli analisti predicono l’ascesa dell’outsourcing, ma poi, a conti fatti, i risultati previsti vengono puntualmente disattesi, soprattutto in Italia. Il 2006, tuttavia, potrebbe essere l’anno del decollo, come ci conferma anche uno specialista del settore, Livio Palomba, che in Capgemini è responsabile dell’area System Development & Maintenance, in pratica la parte di servizi tecnologici per la produttività: «Le aziende hanno capito che l’outsourcing non va visto solo in un’ottica di riduzione dei costi, ma come un approccio più ampio che consente un ridisegno del processo di delivery e di ottimizzazione delle strutture e delle risorse. Per questo, per quanto ci riguarda, è più giusto parlare di “rightshore”, un modello definito da Capgemini che significa aiutare i clienti a concentrarsi sul valore, e riuscire ad abbassare i costi nello sviluppo di sistemi tradizionali con l’aiuto di nostre persone qualificate, che sono in grado di anticipare i problemi e presentare le soluzioni, anche sviluppate custom, in tempi utili».


In quest’ambito, Capgemini può contare su diversi team di specialisti, presenti in varie aree geografiche a cui demandare le diverse fasi di sviluppo di un progetto, con finalità e costi diversi. Per cui, nell’ambito del rightshore si parlerà di: onshore, quando lo sviluppo avviene presso i laboratori di Capgemini nella stessa area geografica del cliente (in Italia la società può contare sui centri di competenza di Napoli e di La Spezia); nearshore, quando invece lo sviluppo viene affidato a centri esteri, ma abbastanza vicini al cliente, per esempio in Europa, mentre l’offshore coinvolge i laboratori presenti in India e Cina, dove lavorano circa la metà delle 8.000 risorse che fanno parte del modello rightshore.


Ma quali sono le richieste più frequenti dei clienti nazionali? «Dal punto di vista dell’area applicativa – risponde Palomba – ci chiedono di fare “transformational outsourcing”, cioè di prendere in carico i sistemi sviluppati negli ultimi anni, ottimizzandoli, in modo tale che nel frattempo l’azienda si può dedicare, con il nostro aiuto, allo sviluppo di sistemi nuovi, su nuove piattaforme. Riguardo a quest’ultime, la preferenza è ancora rivolta a sistemi Unix, in quanto sono considerati più adatti per la complessità presente in grandi realtà. In ambito mainframe, va detto che c’è ancora una certa resistenza a spegnerlo completamente, soprattutto nel settore dei financial service, anche se pian piano la tendenza è verso un downsizing dei sistemi. Per quanto riguarda, invece, le medie aziende, spesso pensano all’outsourcing o al Bpo (Business process outsourcing, ndr) quando devono entrare in nuovi business, per evitare di essere a rischio di struttura, per cui si rivolgono a chi fornisce direttamente i servizi. Per esempio, le banche, quando vogliono operare in nuovi rami, come quello assicurativo, in prevalenza si rivolgono a chi offre già questo servizio».


I timori dei Cio


Tra i punti critici che molte volte sono stati citati come un freno all’esternalizzazione dei sistemi, spesso emerge il timore dei Cio di perdere il controllo dell’area It e dei dati strategici del business aziendale oltre alla difficoltà di realizzare contratti che vadano effettivamente nella direzione di ottimizzare le strutture.


«In realtà, – osserva Palomba – oggi gli interlocutori che ci troviamo davanti sono più preparati rispetto a un tempo, perché c’è stato un forte ringiovanimento tra le file dei responsabili dei sistemi informativi, in quanto spesso alla guida dell’It sono subentrati molti consulenti, che già lavoravano in settori innovativi, per cui sono più reattivi al cambiamento e supportano meglio le decisioni del top management. In futuro, però, non sarà più il costo a fare la differenza tra i diversi player, ma la qualità e il valore delle competenze che offrono. Oggi il ruolo di una realtà come Capgemini è sempre più quello di aiutare l’area dei sistemi informativi a far convergere i loro utenti verso una soluzione che sia condivisa e sulla quale possono lavorare. In questo contesto, ci preoccupiamo anche di fare formazione su tutto quanto è da noi realizzato. Piuttosto, il problema è che negli ultimi anni ci si è concentrati maggiormente sulla complessità tecnologica rispetto invece a una maggior comprensione dei processi da parte degli utenti aziendali».


In merito ai contratti, Palomba osserva che la parola chiave per quanto lo riguarda è “collaborative business experience”, perché «fare un valido contratto di outsourcing significa anche far emergere a priori quali sono i possibili problemi di un’azienda, dopo di che si mette a norma il modo in cui devono essere affrontati, per poi proseguire con un approccio collaborativo, condividendone eventuali rischi, per evitare che nascano sospetti o contestazioni. Per noi la fase contrattuale è molto importante, e la stima deve prevedere l’utilizzo di centri onshore, nearshore e offshore per avere un mix di costi ottimizzato. Per un reciproco interesse, i contratti non devono durare meno di tre anni, perché nei primi 18 mesi l’outsourcer ci perde, mentre in tre anni si raggiunge il breakeven. Attualmente sul mercato, in particolare in Italia, dove le tariffe sono le più basse d’Europa, c’è un eccesso di offerta, per cui il cliente ha il coltello dalla parte del manico nella definizione di un prezzo. Questa situazione, però, si dovrà fermare, perché altrimenti il primo a rimetterci in fatto di qualità del servizio che riceve è proprio l’utente».

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