«Per fare innovazione occorrono coraggio e fatica»

Secondo Andrea Pontremoli, innovare vuol dire conquistare un vantaggio competitivo basato sul concetto di “unicità”, ma vuole anche dire inseguire il modello delle Global integrated company, valido sia per le grandi aziende che per le medie e le piccole

Davanti a un pubblico di oltre 1.400 business partner (riuniti a Parma per l’annuale kick off), Andrea Pontremoli ha ripetuto con forza che per Ibm, per gli stessi partner, per il Sistema Italia, per la società nella quale viviamo, la sola via che può portare a un vero recupero della competitività è quella di investire nell’innovazione.


È una convinzione che trascende la sfera manageriale del presidente e amministratore delegato di Ibm Italia e diventa una sfida assai più ampia che investe la sfera sociale e politica. E non a caso, proprio su questo soggetto, Pontremoli rivendica per Ibm e per i suoi partner una maggiore rilevanza per i processi di innovazione, per l’economia e per il Sistema Paese.


Questi temi sono stati al centro dell’intervista esclusiva che Pontremoli ha concesso a Linea Edp.


Partiamo dal concetto di innovazione, come lo definirebbe?


«Con due parole: coraggio e fatica. Per fare innovazione ci vuole coraggio, occorre mettersi in gioco per fare qualcosa di più, ben sapendo che nel cercare qualcosa di nuovo si corrono dei rischi. E poi fatica. Non basta avere l’idea, l’intuizione, non basta arrivare a individuare quel qualcosa che può dare un vantaggio rispetto a tutti gli altri. Ci vogliono anche la fatica e la capacità di trasformarlo in realtà, in prodotti e soluzioni, di industrializzarlo e di costruire un’impresa o una organizzazione adeguati».


Ne scaturisce un concetto di innovazione che fa riferimento più alle persone che alle organizzazioni?


«Assolutamente sì. L’innovazione la fanno le persone. Le aziende sono un mezzo, uno strumento che da una parte trasforma l’idea in realtà e che nello stesso tempo ha bisogno di questa innovazione per continuare a esistere».


Proviamo a definire il rapporto tra impresa e innovazione?


«È semplice: la differenza sul mercato la fa chi è unico. Innovazione vuol dire fare qualcosa di ineguagliabile o ineguagliato. Chi non trova la propria unicità esce dal mercato».


Cosa può e deve fare l’Ict per favorire l’innovazione?


«Tantissimo. Ma facciamo due esempi. Nell’innovazione di prodotto, l’Ict è lo strumento fondamentale per permettere alle aziende di portare la propria capacità di innovazione a livello globale. Semplificando, qui l’Ict aiuta le aziende a “fare” i prodotti o a “venderli”. Nel caso dell’innovazione di processo l’Ict è nel cuore dei nuovi modelli di business, vale a dire che l’innovazione stessa, se non l’azienda stessa, trova nell’Ict l’infrastruttura abilitante. Qui è l’Ict che “fa l’azienda”».


Che ruolo gioca Ibm?


«Ibm vuole essere l’innovatore degli innovatori, vuole esprimersi non solo nella capacità di innovare ma anche in quella di gestire alti “volumi di innovazione”, che vuol dire sviluppare idee, prodotti, servizi, tecnologie, competenze, ma anche alleanze e partnership, come ad esempio quelle dei business partner capaci di portare sul territorio tutti questi valori e di metterli a disposizione delle imprese e delle istituzioni».


Ibm spinge sul tema della Global Integrated Company, ma non si rischia di parlare solo con le imprese grandi o medio grandi?


«Tutt’altro. Le grandi sono più preparate ma la sfida dei mercati globali riguarda anche e soprattutto le piccole e medie aziende, dove peraltro ci sono persone che hanno idee, che costruiscono ogni giorno la loro unicità a contatto con i clienti».


E qui, che ruolo gioca l’Ict?


«Global Integrated Company vuol dire, innanzitutto, pensare in modo più aperto, abbandonando gli schemi del passato. Vuol dire passare da un assetto tradizionale per ogni impresa basato sul rapporto clienti-dipendenti-fornitori a un assetto nel quale questi tre pilastri vanno coniugati in chiave globale: i clienti sono nel mondo, i fornitori sono nel mondo e anche i dipendenti sono nel mondo. Una regola che non vale solo per le grandi realtà, ma deve valere anche e soprattutto per le piccole. E il nuovo fattore aggregante e abilitante è proprio nell’Ict, nelle soluzioni, nelle competenze, nelle idee che l’Ict è in grado di portare nelle imprese».


In Ibm insistete molto sul fatto che le dimensioni delle imprese non sono più così “determinanti”.


«Certo. Perché siamo convinti che in questo mercato non è più il pesce grosso che mangia il pesce piccolo, ma è il pesce veloce, piccolo o grosso che sia, che detta legge. Le imprese devono essere dinamiche, devono reagire velocemente e devono sapere utilizzare, nel mondo, tutto quello che serve per conquistare la loro unicità e per portarla al maggior numero di clienti, nel mondo».


Facciamo anche qui un esempio?


«Un esempio è il metodo Cbm, un acronimo che sta per Component Business Model, con il quale Ibm ha voluto rivoluzionare il proprio approccio alla consulenza. Con Cbm è possibile permettere a tutte le imprese, anche quelle più piccole, anche quelle meno strutturate, di mettere chiaramente a fuoco i punti di forza e le debolezze e di individuare con precisione le aree nelle quali l’It può fornire un vantaggio competitivo e le modalità in cui si può esprimere».


La consulenza, infatti, gioca un ruolo sempre più importante.


«Per fare innovazione occorrono, come ho già detto, coraggio e fatica. Ma ci vogliono anche idee chiare. Per noi consulenza e Cbm in particolare vuol dire aiutare le imprese a capire con esattezza cosa le rende “speciali” perché è su questo che possono costruire il loro vantaggio competitivo e il loro successo».


Riguardo al rapporto tra innovazione e Ict, da una recente ricerca di Linea Edp è emerso che i Cio tornano a privilegiare gli investimenti in innovazione rispetto a quelli in “gestione”.


«Confermo questa visione. Il Cio punta sempre di più sui temi dell’innovazione anche a livello di gestione dei sistemi informativi. Aggiungo che questa figura deve accelerare il processo di trasformazione da Chief information officier a Chief innovation officier e deve essere sempre più la voce dell’innovazione a livello di board aziendale».


Anche i Ceo, peraltro, sono sempre più sensibili al tema.


«Assolutamente sì. Una recente ricerca che ha messo in relazione il rapporto tra Ceo e innovazione ha rivelato che il 70% dei top manager prevedono di cambiare il modello di business della propria impresa nei prossimi due anni. La stessa ricerca rivela che “solo” il 15% sa come farlo. Questo dato rivela innanzitutto che i Ceo sono alla ricerca di idee innovative e il Cio troverà sempre più ascolto. In secondo luogo, l’innovazione è destinata a cambiare sempre più in profondità le imprese, non “solo” con nuovi prodotti, ma con interventi radicali che ne cambiano l’essenza stessa».


Chiudiamo con il tema delle idee innovative. Quali sono le “fonti” più ricche di idee per le imprese?


«I clienti senz’altro, ma anche i fornitori e i dipendenti. Ciò che conta è saperli ascoltare sempre di più e in modo sempre più aperto».

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