Per far carriera in Italia servono i pantaloni

Lo sostiene Luca Saracino, amministratore delegato di NorthgateArinso Italia, in base ai risultati di una ricerca condotta di recente in Italia.

Con l’intento di fotografare lo scenario occupazionale e retributivo del sistema Italia, tramite la propria divisione Hr Trasformation and Business Consulting, alla fine dello scorso anno NorthgateArinso ha promosso un’indagine che ha analizzato i trend in atto nell’area del personale attraverso il confronto dei percorsi retributivi delle donne rispetto a quelli dei colleghi maschi.
Lo studio, volutamente condotto in un momento storico in cui la crisi economica ha notevolmente influenzato le decisioni delle organizzazioni riguardo le prospettive occupazionali e retributive attuali e dei prossimi anni, ha coinvolto un panel di 82 aziende, per un totale di oltre 487.000 dipendenti operanti sul territorio di casa nostra.
Per comprendere i principali risultati della ricerca ci siamo rivolti a Luca Saracino, amministratore delegato di Northgate Arinso Italia, che ha subito sottolineato una chiara difficoltà, da parte delle donne, a occupare posizioni di rilievo in ambito manageriale.

«In Italia – spiega il manager – sia il contesto sociale, sia il retaggio culturale, rendono più lenta l’ascesa della figura femminile al vertice delle aziende. Non a caso, stando ai dati pervenuti, non sarebbe il livello retributivo la discriminante principale da utilizzare per analizzare le differenze tra uomini e donne. Molto più dei colleghi di sesso maschile, quest’ultime vedono, infatti, frenata la propria ascesa nella gerarchia professionale dalla necessità di conciliare la propria vita in azienda con quella familiare, specie nel momento in cui i figli entrano nella vita di coppia».
Va detto, però, che rispetto agli anni 80 la percentuale di occupazione femminile è cresciuta notevolmente grazie alla maggiore emancipazione e ad altri fattori che riguardano il cambiamento della società, ora più individualista e meno orientata alla famiglia, sebbene le differenze con l’universo maschile rimangano.

I risultati emersi sono diversi
da quanto vi aspettavate?

Per una realtà come NorthgateArinso, che dedica la totalità del proprio business alle risorse umane, di cui ben conosce scenari e dinamiche, i risultati emersi non rappresentano una sorpresa. Tuttavia, non bastano i soli dati numerici riferiti agli aspetti retributivi dei due sessi per comprendere il perché le donne non raggiungano facilmente posizioni ai vertici in azienda. Basti pensare che, a parità di retribuzione tra aziende di grandi dimensioni e realtà più piccole, il divario in termini di compenso medio non è affatto diminuito. Indipendentemente dalla dimensione dell’organizzazione analizzata, infatti, per le posizioni manageriali il gap fra gli uomini e le donne arriva a toccare punte del 30%.

Sono possibili, secondo la vostra esperienza, raffronti con altri Paesi europei simili al nostro? E quali risultati evidenzierebbero?

Un confronto rispetto a quanto avviene in Paesi come Spagna o Francia, molto simili al nostro, sono sicuramente possibili, ma non dobbiamo dimenticare che in diverse Nazioni europee, in particolar modo del Nord Europa, la gestione del personale assume caratteristiche completamente diverse rispetto a quanto accade nell’area del Mediterraneo. Dal punto di vista della gestione del capitale umano, la parte a Nord del Vecchio Continente mostra senz’altro di essere più evoluta in processi che riguardano aree come quella del talent management, al cui interno sono compresi processi di compensation, rewarding, recruitment e succession planning, che vanno al di là dell’area puramente amministrativa della gestione del dipendente che, invece, in Italia, è ancora predominante. Le analisi condotte al nostro interno ci dicono che da noi sono ancora poche le realtà strutturate dal punto di vista della gestione dei talenti. A causa dell’alta complessità normativa che contraddistingue la gestione amministrativa del personale in Italia, specie in ambiti come il payroll e la rilevazione delle presenze, l’ottimizzazione della gestione rappresenta un grande plus per molte imprese che vedono in quest’ultima un notevole ritorno in termini di risparmio dei costi, ma anche per la possibilità di potersi dedicare ad attività ad alto valore aggiunto per il proprio business. Ciò nonostante, è indubbio, che il divario fra uomini e donne riscontrato in Italia è pur sempre presente, anche se in misura minore, anche in altri Paesi europei.

Quali sono i motivi a cui ascrivere le diversità registrate nella valutazione delle performance dei dipendenti che, in Paesi come l’Italia, ricevono una valutazione mediamente buona nonostante molte realtà disattendano drasticamente gli obiettivi di business preventivati?

Il principale motivo per cui un dipendente in Italia è valutato in media positivamente rispetto a un collega estero sta nel fatto che il nostro è storicamente un Paese garantista, dove il concetto del posto fisso è ancora molto radicato e la meritocrazia è un valore difficilmente perseguibile. Con uno scenario del genere, si assiste a un sostanziale appiattimento delle valutazioni del singolo, che finisce, quasi sempre, per cadere in una media, dove chiunque riesce più o meno a stare, ma dalla quale però nessuno si sposta verso una valutazione estremamente negativa. Sono numerosi i casi di aziende che, nonostante risultati economici in pesante deficit, valutano i propri dipendenti in maniera, su per giù, soddisfacente e questo è indice di mancanza di coerenza tra valutazione del singolo e risultati complessivi dell’organizzazione.

Quali dovrebbero essere, secondo voi, i giusti criteri
da adottare per valutare
il personale?

C’è da fare una premessa: solo un’azienda che possiede gli strumenti per misurare effettivamente il lavoro del singolo individuo ha la possibilità di valutare il personale con cognizione di causa. Al dipendente possono essere assegnati obiettivi sulla base dell’evoluzione del ruolo che ricoprirà in un determinato momento. Un giusto mix tra obiettivi di risultato, obiettivi formativi per l’acquisizione di competenze e obiettivi di crescita interpersonale permettono, infatti, all’azienda di valutare la crescita della persona da diverse angolazioni. Ma questo non è abbastanza: l’impresa si deve anche dotare di strumenti tecnologici all’avanguardia per analizzare con facilità e trasparenza lo sviluppo della persona all’interno dell’organizzazione.

Quali concreti spazi ci sono da noi per un vero knowledge management, che punti a valorizzare le competenze?

In Italia siamo in una fase di evoluzione del mercato delle risorse umane. Le aziende hanno, infatti, capito che gli strumenti per rimanere competitivi sui mercati internazionali sono quelli rivolti alla crescita della persona e delle sue competenze. Questi strumenti guidano i decision maker nel valutare correttamente le persone sulla base del loro reale potenziale e delle loro caratteristiche di unicità. La capacità di un’azienda di far crescere le competenze delle proprie risorse segue, quindi, l’acquisizione di strumenti che permettono una valutazione strutturata del dipendente.

E che ruolo concreto può avere oggi nelle aziende la formazione?

Investire in formazione significa dare alle proprie persone la possibilità di acquisire conoscenza e di metterla al servizio dell’azienda, ma non solo. Dal punto di vista del dipendente, la formazione è percepita come un investimento sulla propria persona e questo genera gratificazione ma anche fidelizzazione verso il datore di lavoro. Vediamo sempre più spesso come sia vitale per la crescita dell’azienda, il saper motivare e quindi trattenere le risorse chiave per il business. L’internazionalizzazione dei mercati rende appetibili figure ad alto potenziale al di fuori dei confini nazionali e prendersi cura della formazione della persona è spesso un asset strategico per la cosiddetta retention del dipendente.

Il mondo 2.0, con le tecnologie di partecipazione, come cambia le conoscenze, i profili di competenza, i ruoli e le carriere?

Per noi la sigla 2.0 vuol dire soprattutto trasparenza e mutuo controllo, il che garantisce qualità dell’informazione e offre pressoché illimitate possibilità di comunicazione. L’approccio di nuova generazione applicato al business, che ormai offre applicazioni ready to use per gli utilizzi più diversi, amplia notevolmente le possibilità per l’acquisizione delle conoscenze, per lo sviluppo delle idee e per la condivisione del lavoro. L’approccio 2.0 ha avuto anche una fortissima influenza sulla crescita dei soft­ware proposti in modalità as a service e dell’on demand che, se applicato per lo sviluppo dei processi relativi alla gestione del personale, apporta un grande valore aggiunto in termini di efficienza operativa e di contenimento dei costi.
Ma pensiamo anche ad applicazioni in ambito di self learning, di formazione a distanza, di work sharing o applicazioni self service per la gestione amministrativa del dipendente. Per le aziende si è aggiunto, quindi, un nuovo canale che si è prepotentemente posto alla ribalta. Ora sta alla capacità delle organizzazioni utilizzarlo nella maniera più efficace possibile al fine di disporre di processi maggiormente agili, flessibili e a costi inferiori.

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