N° 131 LUGLIO/AGOSTO 2004

In un mercato con più di 800 operatori animati dalla volontà di stringere alleanze, cercare nuove idee e proporre progetti, la manifestazione ferrarese lancia un messaggio chiaro: per far ripartire l’economia occorre cambiare prospettiva. Dalla gestione allo sviluppo.

Luglio 2004, Non era presente fisicamente a Ferrara, ma Luca di Montezemolo
s’è fatto sentire. Il tema dell’innovazione che il neo presidente di
Confindustria ha scelto come cavallo di battaglia è stato, infatti, il
vero comun denominatore di Ict Trade 2004. E se il primo obiettivo di Montezemolo
era quello di portare il tema dell’innovazione al centro dell’agenda dell’economia
italiana, Ict Trade ha testimoniato che questo tema è oggi al centro
dell’industria It.
Maurizio Cuzari, amministratore delegato di Sirmi
e inventore della manifestazione, ha lanciato subito una bordata, provocatoria,
sul tema: «Il Sistema Italia non ne vuole sapere dell’innovazione
tecnologica»
. Ha altri pensieri, il Sistema Italia o forse è
un problema di metodo? «L’innovazione – prosegue – non è
nei prodotti, bensì nella capacità dell’It di mettere in moto
i processi di innovazione all’interno delle imprese utenti»
. I prodotti,
le tecnologie e i servizi correlati vengono dopo. Ed è Giuseppe
Carrella
, amministratore delegato di Tsf con un passato
da It manager in grandi imprese, che risponde a Cuzari: «L’innovazione
è prima di tutto nella testa delle persone. Se vogliamo rivederla anche
nei prodotti e nei processi, dobbiamo rimettere le persone al centro delle aziende»
.
Ma il dito Carrella lo punta contro il mulino a vento di questa congiuntura:
«Attenti, perché a forza di stressare i costi e di irregimentare
il lavoro degli It manager, oggi le aziende sono in mano alle società
di consulenza che applicano modelli pensati chissà dove e validi per
tutti. E l’omologazione è la nemica numero uno dell’innovazione»
.

Un rischio che sta diventando realtà se si guarda allo scenario disegnato
dallo stesso Cuzari, prima con un segnale positivo: «Si nota una lieve
ripresa degli investimenti, una percettibile inversione di tendenza»
,
poi con un’ombra minacciosa: «Cresce la spesa dedicata alla gestione,
mentre diminuiscono gli investimenti orientati allo sviluppo»
. E
senza sviluppo di innovazione nelle imprese ce n’è poca. Eppure il clima
nelle aziende sta mutando. Antonio Muttoni, vice president
Business Partner di Ibm Italia, rilancia i dati di una ricerca
interna: «La crescita è tornata a essere la priorità
numero uno dei Ceo»
. Ma è una cosa da poco visto che questi
signori sino a qualche mese fa pensavano solo a tagliare costi. Come sempre,
ovviamente, c’è un ma: «La situazione è più complessa
e i capi azienda vogliono pilotare lo sviluppo mettendoci la loro testa e le
loro mani. Sempre più spesso
– prosegue Muttoni – gli investimenti
richiedono un consenso più vasto. Gli amministratori delegati vogliono
essere direttamente coinvolti e gli uomini dell’Edp vengono messi in ombra,
sono costretti a un ruolo esecutivo»
. Uno scenario che secondo Carrella
deve essere corretto altrimenti si rischia la burocratizzazione dell’innovazione.

Ma non basta strigliare gli It manager e invitarli a riprendere possesso del
loro vero ruolo. Serve qualcosa di più. Per Muttoni questa situazione
può essere l’occasione per saldare la capacità delle imprese del
trade a valore aggiunto con la necessità degli It manager di portare
innovazione in azienda. «Ma si deve imparare a parlare di Roi, si devono
produrre progetti nei quali i Ceo sappiano riconoscersi».

Per Alessandra Brambilla, direttore commercial channel &
Small e medium business di Hp Italia, il punto focale sta nel
fatto che per le imprese cambia lo scenario competitivo, molti imprenditori
hanno la necessità di intervenire sui loro modelli di business, e per
loro l’innovazione è nelle soluzioni e nelle partnership attraverso le
quali abilitare la propria impresa a stabilire nuove relazioni con clienti e
concorrenti. Insomma, i segnali positivi per l’innovazione non mancano eppure
tra il Sistema Italia e l’innovazione non è ancora scoccata la scintilla.

Ma a Ict Trade si è fatta strada anche un’altra scuola di pensiero secondo
la quale non è vero che in Italia non ci sia innovazione. Ce n’è,
anzi, tantissima e lo dimostrano i consensi che la telefonia cellulare, il mondo
consumer e tutte le componenti della digital life stanno raccogliendo presso
le famiglie. Un’innovazione che si "vende" e che arriva nelle case
di una "Italia gaudente" amante del nuovo quando questo vuol dire
divertimento o conoscenza, ma che, invece, lo snobba quando le novità
sono finalizzate a cambiare i processi delle aziende. Un’"Italia gaudente"
che tra la digital life e la digital economy non esita a scegliere la prima,
dimenticando però che è dalla seconda che arrivano le risorse
necessarie per far crescere il Paese. Non ci deve, poi, meravigliare se all’Ict
è destinato meno del 2% del Pil e se le aziende fino a 50 dipendenti
spendono mediamente 1.500 euro all’anno in Ict. Ma cosa si informatizza con
1.500 euro?

E come si fa a non parlare di rischi e di minacce quando all’orizzonte di questo
scenario ci sta uno spettro che si chiama impoverimento, che non riguarda solo
il mondo It, ma tutta la nostra economia. È anche l’analisi di Lucio
Poma
, docente della facoltà di Economia alla Università
di Ferrara
: «Le statistiche ci dicono che nel nostro Paese
sta calando la domanda di strumenti di produzione, si vendono meno "macchine
del fare". Questo perché i Paesi che hanno puntato sull’innovazione
si sono appropriati di questi business e l’Italia resta al palo»
.
Un fenomeno pericolosissimo per un Paese che non può nemmeno spendere
la carta (peraltro perdente) della delocalizzazione. Anche per Poma la via d’uscita
è nell’innovazione, ma non solo in termini di ricerca e sviluppo di nuove
tecnologie: «L’Italia deve iniziare a produrre ed esportare conoscenza».
E bisogna fare in fretta perché il modello di business del passato non
esiste più. La fattura che parte ogni volta che il cliente chiama (il
mito del cliente che chiama!) è una fattura che non parte più.
Se si accetta che i prodotti sono diventati delle commodity, ancorché
sofisticate, si deve accettare che non esistono clienti disposti a pagare specialisti
per portare in azienda (solo) delle commodity. Serve valore, servono conoscenze
e competenze perché oggi gli utenti credono che l’It sia il pc. «Non
è così
– si ribella e precisa Romano De Carlo
-. L’It deve essere molto di più!» De Carlo arriva a Ict
Trade dopo aver guidato lo staff It di imprese come Enel e Poste Italiane e
con la carica di amministratore delegato di Intesa Sistemi e Servizi,
vale a dire il capo supremo dell’It di Banca Intesa. Un uomo con un budget It
che fa gola a tanti e una visione disincantata del mercato. Dal suo punto di
osservazione De Carlo ritiene che per ridare all’It il ruolo di motore dell’innovazione
sia necessario rimettere le cose al loro posto. «Non è giusto
– denuncia – parlare di un mercato Ict che cresce a due cifre comprendendo
in questo mercato delle voci di business, come i servizi di telefonia mobile,
che con il business non hanno nulla a che vedere. Occorre pulire le statistiche
dalle voci relative a giochi e content. Occorre vedere la gravità della
situazione di un mercato che non cresce»
.

Il problema è nel mercato: «Ma come si fa a parlare di innovazione
quando questo mondo è rimasto ancorato ai propri modelli e si è
solo limitato a riempirli di prodotti diversi? Un tempo c’erano i mainframe,
adesso ci sono le server farm. Non so cosa sia meglio…»
. L’affondo
De Carlo lo dedica a quella che considera la causa principale dell’immobilismo
informatico, l’organizzazione dei vendor: «Il sistema dell’offerta
è troppo frammentato e ha polverizzato le competenze. Viviamo in un Paese
in cui il rapporto tra imprese It e cittadini supera il rapporto carabinieri
e cittadini»
. E si domanda: «È proprio necessario?»
Anche perché «noi vogliamo un referente che risolva i nostri
problemi, mentre oggi il sistema dell’offerta ci segue con decine di persone
che pensano prima di tutto a risolvere i loro problemi»
. È
questa la grande madre di tutti i problemi: la frammentarietà. «Le
imprese sono guidate da personaggi di spessore che hanno smarrito la loro vera
missione. Dovevano stare vicini ai clienti, dovevano trasferirgli la loro visione
del mercato. Invece sono diventati dei grandi mediatori che governano i responsabili
diretti del business. Questo processo ha allontanato la "testa" dei
produttori dai bisogni dei clienti»
. La soluzione per De Carlo sta
in un paradosso. In un’epoca nella quale le aziende dichiarano a gran voce di
porre il cliente al centro della propria attenzione, De Carlo chiede di tornare
al passato quando «il cliente era veramente al centro dell’attenzione
dei fornitori. Anche se allora non c’era il marketing che lo strillava»
.
Insomma, nessuna vera innovazione: «A meno che non si voglia considerare
innovazione l’outsourcing…»
.

Eccolo, l’outsourcing, l’altro grande nemico dell’innovazione. «Si
è esternalizzata la produzione, fornitori esterni pensano ai servizi,
l’ingegnerizzazione viene delegata a società specializzate, i processi
vengono disegnati dalle società di consulenza. Si sono create le imprese
virtuali, con costi bassi, ma senza spina dorsale, senza talenti, senza visioni.
In queste imprese l’unico vero centro di innovazione è rimasto nel marketing.
Ed è l’unico tipo di innovazione di cui gli It manager non hanno bisogno»
.
Per Giuseppe Carrella la soluzione è elementare: «Occorre recuperare
il talento delle persone e in particolare quello di persone che sono motivate
a far crescere il valore dell’impresa nella quale stanno vivendo. L’innovazione
– è il suo messaggio – sta tutta nella testa delle persone.
Se oggi c’è poca innovazione, il vero motivo sta nel fatto che si sono
marginalizzate le persone»
.

Innovare, direbbe qualcuno, è anche cambiare le convenzioni. E se si
parla di convenzioni non si può non citare Consip. Nel
2003 il suo amministratore delegato Ferruccio Ferranti era
a Ict Trade con un programma minaccioso. Consip era vista da Var e system integrator
peggio di un pericoloso concorrente. L’innovazione che aveva appena introdotto
nella ridefinizione dei rapporti tra sistema dell’offerta e Pubblica amministrazione
stava mettendo fuori gioco la maggior parte delle piccole e medie imprese e
stava trasformando tutta l’offerta di It alla Pa in un’offerta di commodity.
Senza valore. Ci fu un’alzata di scudi e ci fu un’analisi del problema da parte
di Consip. «Molto semplicemente – dichiara Ferranti – abbiamo
pensato che fosse meglio avere il 70% di qualcosa piuttosto che il 100% di niente.
Abbiamo rimesso in discussione le nostre scelte e ne è uscito un modello
innovativo, intermedio, che tiene conto delle esigenze di razionalizzazione
e contenimento della spesa da parte della Pa, ma anche della necessità
di lasciare al sistema dell’offerta gli spazi necessari a formulare proposte
a valore. Per questo abbiamo abbassato la soglia di accesso alle convenzioni,
abbiamo liberato le Pubbliche amministrazioni dal regime dell’obbligatorietà,
mantenendo i punti di riferimento di qualsiasi fornitura negli standard di prezzo
e di qualità conseguiti da Consip»
. Innovazione vuol dire,
qui, indirizzare la propria azienda verso un modello organizzativo che sappia
gestire e sfruttare le occasioni offerte da Consip. «E la nostra prossima
innovazione
– conclude Ferranti – si chiama Success Fee. Vogliamo introdurre
un modello che coinvolga i fornitori in tutti i processi, anche in quello relativo
al successo finale dei progetti»
. Non basterà più costruire
dei sistemi che funzionano, sarà necessario portare competenze e idee
per far sì che i cittadini li utilizzino attivamente. Il Success Fee
per il fornitore dipenderà proprio dal successo finale di questi progetti
presso il grande pubblico. Un esempio? Gian Paolo Amadori,
direttore sezione artigianato, new economy, ricerca e innovazione della Regione
Lombardia
, sventola davanti al pubblico di Ict Trade la carta dei servizi
elettronica dimostrando a tutti che si tratta di un servizio concreto, reale,
che non è solo nelle idee o nei progetti del qualche ente. Tuttavia non
è nemmeno dove dovrebbe essere, ovvero nelle tasche dei cittadini. E
se ancora non c’è, forse è anche perché il sistema dell’offerta
che ha partecipato al progetto non ha ancora dato il meglio di sé su
tutte le fasi che determinano il successo dell’operazione. Qualcosa è
rimasto scoperto e serve un modello che spinga e crei nuove motivazioni per
le aziende a coprire anche l’"ultimo miglio" verso gli utilizzatori
finali.

Ma è ancora una volta un problema di competenze e di "persone".
Alessandro Musumeci del Miur prende a modello
gli Stati Uniti. «At-Kearney ha sviluppato un modello per misurare
il capitale umano parametrando una serie di valori. Dai risultati emerge che
in Italia e in Europa il capitale umano medio si attesta su un valore prossimo
ai 249mila euro, mentre negli Stati Uniti è quasi il doppio»
.
Il baricentro del problema sta tutto nel tema della formazione: qualità
e intensità dei percorsi formativi sono il trampolino dell’innovazione.
Il richiamo di Musumeci deve valere per tutti, pubblico e privato, imprese e
istituzioni e arriva da un antico proverbio cinese: «Se fai progetti
per un anno pianta del riso. Se fai progetti per dieci anni pianta un albero.
Se fai progetti per una vita insegna ed educa»
.
Un messaggio questo che vale anche per la politica rappresentata a Ict Trade
dal parlamentare An Andrea Ronchi, tirato per la giacca da
produttori e utilizzatori finali. «La politica deve accorciare le
distanze tra bisogni e idee, tra necessità e opportunità»
.
Però, nei fatti, l’It oggi fatica a entrare nell’agenda di un parlamentare.
Perché? Secondo Pierfilippo Roggero, presidente Assinform,
sul banco degli imputati ci deve stare prima di tutto "il metodo",
ovvero la logica fallimentare degli investimenti a pioggia e in secondo luogo
"il merito", vale dire il fatto che comunque sia queste "piogge"
vanno a irrigare i soliti mercati, come l’edilizia, le grandi opere, settori
che storicamente e ciclicamente ritrovano ingenti finanziamenti da parte pubblica,
mentre all’It non restano nemmeno le briciole… È un male politico
e la soluzione non può che essere politica ed è lo stesso Roggero
a indicarla: «Occorre trovare il modo di finanziare le aziende che
investono veramente in innovazione, misurando i risultati del loro lavoro»
.
A dar manforte a Roggero ci pensa Marco Schianchi, presidente
di Comufficio, secondo il quale non è affatto un problema
di risorse, ma di scelte. «I soldi ci sono – argomenta -, il
vero problema è che vengono indirizzati verso settori come l’agricoltura
che hanno una bassa incidenza sia sul Pil, sia sull’innovazione»
.

Ma la politica è la capacità di influire sulle scelte attraverso
la rappresentanza ed è proprio quello che manca al settore It. Le ragioni
anche qui sono tante, ma forse la sintesi più efficace la propone Fabio
Lazzerini
, qui in veste di presidente di Osservatorio Italia:
«Il nostro settore arriva da una cultura di gestione che si è
formata in anni nei quali il problema principale era rispondere in modo adeguato
a una domanda che continuava a crescere. Nelle imprese non ci si poneva un problema
di rappresentanza. Ma oggi le cose sono cambiate e deve cambiare anche la cultura
delle nostre imprese»
. La cultura delle imprese! Ecco che esce allo
scoperto il terzo grande nemico dell’innovazione. «Fare innovazione
significa fare scelte coraggiose, mettersi in discussione, investire se stessi
e le risorse dell’impresa in progetti che non danno certezza di risultato. Quante
imprese
– si domanda ancora Carrella – accettano di dar spazio a progetti
dove non c’è certezza di risultato?»
Il problema è
che in questo sistema si sono ridotti gli spazi di manovra. Il rischio d’impresa
diventa subito un rischio personale. Ed è su questo tema che s’imprime
il sigillo finale a questo Ict Trade dominato dal tema dell’innovazione. Ancora
per voce di Carrella: «Parliamo tanto di innovazione e facciamo bene,
ma con l’innovazione ci giochiamo la carriera. E alla fine stiamo tutti attenti…»
.

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