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Low code, la visione di Appian

La ricerca di soluzioni per rendere la vita più facile ai programmatori è nata probabilmente con gli stessi linguaggi di programmazione. Parlare di low code, oggi è solo l’ultimo passaggio di una continua evoluzione alla ricerca delle semplicità di sviluppo e quindi alla riduzione degli errori.
Dall’assembler alla programmazione strutturata, fino a quella a oggetti con interfacce grafiche, negli anni lo scenario è cambiato profondamente. Ora però, si parla di qualcosa di più, una soluzione potenzialmente in grado di fare a meno delle competenze e l’esperienza di uno sviluppatore.

O almeno, questa è la sensazione di molti. Perché in realtà la situazione è più articolata. «Prima di tutto, vorrei come sottolineare come il Low code sia a tutti gli effetti un’esigenza sentita da molte azienda – afferma Silvia Fossati, Area Vice President Southern Europe di Appian -. La difficoltà nel reperire risorse adeguate, di personale ed economiche, c’è sempre stata ma in questi ultimi tempi si sta accentuando».

Di fronte a situazioni del genere, è nella natura stessa di qualsiasi CIO cercare la soluzione ideale. Low code va esattamente in questa direzione. In pratica, ottenere di più dalle risorse disponibili. «Offre certamente la possibilità di realizzare applicazioni di livello enterprise con tempi e risorse contenute rispetto alle procedure di sviluppo tradizionali – sottolinea Fossati -. Dal punto di vista di un dirigente, è anche uno strumento utile per raggiungere risultati altrimenti difficili».

Nella messa in pratica, c’è un altro aspetto da tenere in considerazione. Anche la metodologia risulta semplificata. Una procedura più trasparente nello sviluppo di applicazioni, dove è più facile confrontarsi con i meno tecnici, tenere sotto controllo lo stato di avanzamento ed evitare di trovarsi con un prodotto finale non più allineato a esigenze aziendali nel frattempo mutate.

Anche per gli sviluppatori più nostalgici, si parla comunque di strumenti la cui utilità è difficile da ignorare. Low code si può considerare come l’ultima evoluzione degli strumenti di sviluppo visuali, a loro volta guardati con sospetto quando hanno fatto la comparsa sul mercato.

«Non parliamo comunque di zero code. Si tratta in realtà di strumenti software utili per rendere le cose più semplici. Quindi, molto adatti per affrontare sviluppo a livello enterprise molto complesso. Senza dimenticare comunque la libertà di poterlo ampliare e integrare a piacere».

Standard, versatilità e integrazione sono tutti elementi in grado di aumentare il valore di un’applicazione e la  sua durata nel tempo. Considerando anche come inevitabile l’avvicendamento tra i programmatori e l’esigenza di gestire passaggi di consegne.

Appian conferma: non c’è ragione per temere il Low code

Aspetti a volte visti con diffidenza dai diretti interessati, proprio nel timore di perdere competitività, se non addirittura di non essere più utili.

«Credo sia un mito, almeno in parte da sfatare. Pensare di perdere un posto quando solo negli USA c’è carenza di circa 4 milioni di figure, porta a pensare come in realtà sia vero il contrario. Anche se in Europa i numeri sono diversi, la situazione è simile».

Come sempre in situazioni del genere, il nodo è non accontentarsi. La tecnologia IT è per definizione un settore molto dinamico. L’innovazione e il relativo aggiornamento riguardano tutti e in particolare dove le applicazioni prendono forma. «Se uno non esita a saltare a bordo di questo nuovo modo di produrre tecnologia di sviluppo, le opportunità saranno molte. Anzi, penso sia più facile appassionarsi ancora di più, perché se scopro un modo per fare le cose più facilmente, meglio e più in fretta, aumentano anche le soddisfazioni»

Allargando la visuale, emergono altri aspetti importanti del Low code. Semplificare le operazioni, significa anche agevolare i relativi processi nei quali il software va inserito. Di fronte a un codice più comprensibile, analisi, integrazione e implementazione ne risultano semplificate. Una condivisione anche al di fuori dell’ambito puramente tecnico, permette di raggiungere meglio obiettivi come usabilità o affidabilità.

«Lavorare a più mani è certamente un modo diverso di lavorare. D’altra parte, permette di muoversi su un oggetto condiviso, sul quale intervenire con un linguaggio comune».

Discovery, design, innovazione: pilastri della trasformazione digitale supportata dal low code

Nel patrimonio software di un’azienda però, bisogna comunque tenere in considerazione anche una base installata, non di rado legacy, sulla quale è difficile intervenire. Conservare questo patrimonio, intorno al quale spesso gira un’intera attività, comporta la possibilità di addentrarsi nel codice, anche solo per poterlo aggiornare.

Qua si inserisce una della più recenti attività Appian, frutto dell’acquisizione di Lana Labs, avvenuta nel 2021. «Nella versione 22.1 sono inclusi strumenti per il process mining. Un’attività ancora poco conosciuta in Italia, ma molto importante considerata la grande varietà di software. Vogliamo offrire ai nostri clienti uno strumento perfetto per la trasformazione digitale».

Un modulo costruito intorno a tre principi base. Prima di tutto la Discovery per capire la situazione attuale e addentrarsi tra le righe. Quindi, il Design per riprogettare dove necessario intervenire e infine Automazione, per farlo in modo meno gravoso possibile. Procedura utile anche per avviare una sorta di circolo virtuoso, dove una volta ricostruito il software si possa capire come e dove intervenire, per apportare le relative migliorie e quindi riavviare le operazioni.

Agli strumenti per il process mining, la piattaforma Appian unisce la Robotic Process Automation, che permette, senza intervenire sulle applicazioni, di automatizzare operazioni manuali ripetitive di consultazione e inserimento dati sostituendo all’intervento umano un robot software che esegue le operazioni interattive. È un ottimo strumento che permette di continuare a sfruttare i dati prodotti dagli originali sistemi legacy per integrarli negli strati software più attuali. Uno scenario che chiama in causa prima di tutto ambienti come le banche, molto sensibili a questo tipo di problematiche.

Un cambiamento da gestire, non da contrastare

Il cambiamento prospettato è qualcosa più di una semplice evoluzione. I CIO sono chiamati a gestire un’altra svolta importante, di fronte alla quale esitare può rivelarsi pericoloso. «Bisogna mettere in agenda un cambio di paradigma. Non è solo un nuovo modo di lavorare, una nuova tecnologia da imparare. È un vero e proprio cambiamento da gestire».

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare al primo impatto, tutelando gli investimenti passati. Non significa cioè buttare via un patrimonio informatico anche di anni, ma semplicemente di adattarlo a nuovi scenari sfruttando nuovi strumenti. Grazie ai quali, individuare le aree su cui è necessario intervenire e riuscirci senza stravolgere l’infrastruttura.

«Certamente la grande azienda è il principale obbiettivo di Appian. In Italia però, sono tantissime anche le PMI con le quali siamo in contatto e alle quali possiamo offrire i nostri servizi. In modo particolare, quando si parla di azienda estesa, considerata nel suo insieme, dove il livello di complessità inizia a crescere».

Pensato soprattutto per agevolare lo sviluppo software, Low code si presta anche a supporto al problema ancora molto accentuato della carenza di competenze. Viene quindi naturale guardarlo come supporto ad ampio raggio in questa direzione. «Abbiamo avviato dei percorsi con alcune Università italiane, anche per andare a recuperare il prima possibile il maggiore potenziale – conclude la manager di Appian -. Siamo ancora a uno stato embrionale, nel senso che è una questione avviata da poco. Vedo però molte curiosità e interesse e questo mi sembra molto positivo».

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