L’otto settembre dell’imprenditore
(Ovvero, se questo e’ il Nuovo mercato, ci teniamo quello vecchio)

Il Nuovo Mercato non è diventato il Nasdaq italiano. Colpa della bramosia di ricchezza dell’imprenditore, teso più alla speculazione che alla “creazione”

11 settembre 2003 La trappola del moralismo è dietro l’angolo, e, ci rammarichiamo, è facile caderci dentro. Quelle che seguono sono impressioni raccolte una settimana fa, sull’onda dello sdegno (ecco il moralismo) e poi messe da parte.
Ma c’è che abbiamo appreso delle dichiarazioni fatte al convegno Ambrosetti di Cernobbio dall’economista Paolo Savona, che ha descritto gli imprenditori italiani come persone orientate solo all’affare immediato, al vantaggio effimero, avulse alla scienza, perché questa sì che è un investimento a lungo termine. Imprenditori, quindi, che hanno tradito la tradizione italica, fatta da “arti e mestieri”.
C’è che abbiamo sentito Marco Pannella ammettere di essersi illuso una sola volta riguardo i nuovi imprenditori nazionali, nella fattispecie nei confronti del rampollo di casa Buitoni, nutrendo per lui una fiducia che svanì nel tempo di cottura di un maccherone.
E allora quel che volevamo accantonare si è riproposto.
Ma, insomma (riecco il moralismo), come si fa?
Come si fa a credere a questa nuova genia di imprenditori italiani? E verrebbe di mettere fra virgolette la parola imprenditore. Per non dire di peggio. Per non dire, berlusconianamente, “imprenditori, vil razza”.
Ma non lo diciamo.
Però come si fa, dicevamo, a credere a chi specula sul proprio creato? Perché, noi che gli siamo estranei, gli si dovrebbe dare fiducia? Perché gli si dovrebbe dare in nostri soldi, se i primi a farsi beffa dei denari che entrano sono coloro che li chiedono?
La questione, veniamo allo scoperto, è quella del Nuovo Mercato, e quindi dei titoli prevalentemente tecnologici.
Ci si è chiesti, spesso, perché non sia diventato il Nasdaq italiano.
La risposta ve la facciamo dare da Repubblica, che venerdì scorso ha superbamente portato alla luce, facendo abbondantemente nomi e cognomi (chapeau), le abitudini del top management delle aziende quotate al Nuovo Mercato: speculare sulle proprie azioni, venderle e comprarle, realizzando guadagni sostanziosi.
E, intendiamoci, utilizziamo il termine “speculazione” nella migliore accezione possibile: quella che maestri dell’economia finanziaria italiana, come Tancredi Bianchi, ci hanno insegnato, ovvero intendendola come il motore del mercato; un motore indispensabile per creare ricchezza.
Solo che pare crearla unicamente per pochi privilegiati.
Un conto è se la speculazione la fa il risparmiatore, che di professione fa il macellaio, un conto è se la fa chi invita a credere nell’oggetto delle azioni. Oggetto, tra l’altro, le cui dinamiche sono ben conosciute da chi le determina. Meno lo sono dal macellaio, che passa la giornata a spaccar costate.
Delle due l’una: o questo genere di imprenditori è “una cosa seria”, da imitare, e quindi sotto tutti con la speculazione selvaggia, oppure non ci siamo.
Non ci siamo perché non si tiene una rotta solida se il comandante della barca un giorno si e uno no cala in acqua la scialuppa di salvataggio e ci carica sopra le sue cosette, lasciando intendere all’equipaggio di volersene andare.
Vien da chiedere, allora, a questo nuovo management italiano: ma cosa siete li a fare? A condurre aziende o a smistare quantità di denaro a scopo arrichimento? Ma le vostre aziende cosa fanno? Producono reddito? Anzi, no, producono qualcosa di solido in cui credere? Creano lavoro?
Giochetti come il Nuovo Mercato, insomma, sembrano essere stati creati solamente per soddisfare l’incessante bramosia di ricchezza del capitalista italiano.
Capitalista, attenzione, non imprenditore.
C’è una sostanziale differenza fra le due categorie. Il secondo si mette in gioco per creare. Il primo gioca con le creazioni, perché sa che, dovesse cadere, rimarrebbe in piedi.
Indovinate un po’ di cosa avremmo bisogno.

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