L’Hi-tech tricolore

L’importanza della società di Ivrea nel campo dell’innovazione Una storia che alternando fasti e sfortune ha avuto risvolti anche nella vita sociale del Paese

Parlare di Olivetti limitandosi all’aspetto tecnologico vuole dire
tagliare fuori un pezzo importante della storia dell’azienda di
Ivrea.
Che con Adriano Olivetti, figlio di Camillo, il fondatore della società,
fece muovere i primi passi, negli anni Cinquanta, a quel concetto di responsabilità
sociale d’impresa oggi tanto di moda. Il legame fra Olivetti e Ivrea
è fortissimo. Basta vedere quel cartello subito fuori dall’autostrada
che indica gli stabilimenti Olivetti, così come se si parlasse
di un paese e non di una società, con la classica scritta bianca
con sfondo blu tipica delle indicazioni stradali vecchio stile.

E mentre fuori dai capannoni si sviluppava un rapporto nuovo fra azienda
e territorio, dentro nasceva la prima macchina per scrivere, la mitica
Lettera 22, l’Elea 9003, il primo calcolatore elettronico interamente
sviluppato in Italia fino ai modelli M20 e M24, i personal computer di
Ivrea arrivati quando l’azienda è già passata nella
mani di Carlo De Benedetti.
è in quegli anni che la società svolta con decisione verso
l’informatica e oltre ai computer produce stampanti, ma anche fax,
registratori di cassa, e fotocopiatrici.

La concorrenza di nomi come Ibm e Hp, però, alla lunga è
dura da reggere. La caduta di prezzi e margini e la debolezza del mercato
europeo mettono in crisi Olivetti che riesce anche a infilare un clamoroso
flop come quello dell’Envision, una sorta di Windows Media Center
arrivato troppo in anticipo sui tempi.
Dopo le macchine per scrivere e l’elettronica, arriva quindi il
momento delle telecomunicazioni. Fedele al suo Dna, punta un’altra
volta sull’innovazione con la telefonia mobile e Omnitel e più
avanti su quella fissa con Infostrada.

Gli anni Novanta, sotto la guida di Roberto Colaninno, segnano l’uscita
definitiva dall’It e in particolare dai pc. Ricostruire la storia
degli ultimi anni della società significa infilarsi in un intrico
di personaggi e aziende molto difficile da districare. Olivetti Personal
Computers, sull’orlo del fallimento, nell’ottobre 1999 viene
venduta alla Finmek di Padova di proprietà di Carlo Fulchir per
21 miliardi di lire. Op Computers si stacca dalla casa madre e inizia
una nuova storia.
In una fredda e triste mattina di gennaio i nuovi padroni riaprono lo
stabilimento di Scarmagno. Ripartono i lavori e qualche mese dopo convocano
la stampa per annunciare la nuova vita di Olivetti. Gentile, simpatico,
attento a rispondere con sollecitudine a tutte le domande Fulchir spiega
che il piano industriale prevede la produzione di pc, server, schermi
piatti e prodotti per la telefonia (Web phone) e il settore auto con l’obiettivo
di arrivare a 1.100 miliardi di fatturato nel 2002.

L’obiettivo non sarà mai raggiunto. Fulchir si accorge che
fare i pc non è il suo mestiere (il suo gruppo si occupa di contract
manufacturing).
Nel 2002 si accorda con Tecnodiffusione che avrà il compito di
produrre e distribuire i pc a brand Olivetti. Mai accordo nacque così
male.
Le liti iniziano subito dopo la firma. Questione di interpretazioni. "Possiamo
vendere anche sulla luna i pc Olivetti" dicono a Tecnodiffusione.
Potete farlo solo nei vostri punti vendita, risponde Fulchir. In pratica
non se ne fa nulla.
Più tardi Tecnodiffusione acquisirà gli stabilimenti di
Scarmagno che rimarranno, però, coinvolti nel tracollo dell’azienda
toscana.

Tutta diversa la storia dell’altra Olivetti che, dopo essere stata protagonista
nelle nuove tecnologie, lo diventa anche nella finanza tanto che da Olivetti
Tecnost ormai era percepita solo come holding finanziaria e non come società
industriale. Per questo oggi si è tornati all’antico con Olivetti
che, come recita la pubblicità «è pronta a dare
nuovo impulso all’Information technology italiana nel mondo»
.
Ce n’è davvero bisogno.

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