Leak vuol dir scarsità

Ad Assange dobbiamo l’uso di un nuovo vocabolo e poco più.

Il caso ormai stranoto di Julian Assange e di Wikileaks apre il quaderno della storia a varie pagine. A quella della fuga di notizie, che hanno sempre attratto popolo e potenti per poi, quasi mai arrivare a qualcosa di concretamente definitivo (i segreti che nascondono realmente qualcosa sono sempre tali). A quella delle punizioni esemplari, a quella delle rappresaglie. E anche a quella della tecnologia, che più ci interessa in questo spazio.

C’è da dire per paradosso che la tecnologia c’entrerebbe anche poco con il caso.
Non è tanto merito della potenza di un computer se Assange è entrato in possesso di informazioni (informazioni?) riservate, quanto della volontà di non proteggerle.
Sicuramente è stata favorita la velocità di divulgazione, ma qui c’entra, e come sempre, il libero arbitrio, senza il quale non si parte e non s’arriva.

Ma è sul terreno dei bit che detrattori e sostenitori preferiscono confrontarsi, gli uni lamentando il leakage e pensando che chiudendo un sito si risolva tutta la questione, gli altri attaccando i siti istituzionali e finanziari del potere che vuole imbavagliare. E via di questo passo.
Battaglie virtuali al tempo del cloud.

Ma il problema è più materiale. E non tanto perché lo stesso anarco-individualista, come qualcuno ha voglia di definirlo, nominalmente viene perseguito per un fatto eminentemente fisico e non per il “leakage”. Quanto perché è impensabile che si possa accedere da soli e magari con un disco esterno a tutti i segreti dei potenti del mondo.
Il materialismo di questa faccenda rivela che esiste un problema davvero materiale, ossia di scarsità.

Viviamo in tempo di scarsità: di risorse, fonti, idee, il che all’epoca del Web è quasi un insulto.
Patiamo tanto la situazione che siamo disposti a credere a tutto, a prescindere.
E a prendere le parti a prescindere.
E questo i protagonisti della vicenda, Assange e gli altri, lo sanno.

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