Le Pmi italiane pagano l’elettricità il 68% in più rispetto alla media europea

Lo evidenzia la Cgia di Mestre, secondo cui solo a Cipro le piccole imprese spendono di più. In Italia esiste anche un netto differenziale con le grandi aziende sul costo del MWh.

Le Pmi italiane pagano l’energia elettrica il 68,2% in più della media europea, tanto che soltanto a Cipro, tra i 27 Paesi dell’Ue, si registra una situazione peggiore della nostra. È quanto evidenzia una recente analisi della Cgia di Mestre, secondo cui il costo praticato nel nostro Paese alle piccole imprese (sotto i 50 dipendenti) è pari a 198,8 euro per ogni MWh consumato, una tariffa per l’appunto inferiore soltanto a quella di Cipro (234,2 euro/MWh). Altro fattore negativo è il peso del fisco sulla bolletta: per ogni MWh una piccola azienda italiana paga 55 euro di tasse, un vero e proprio record europeo in termini assoluti. Se, invece, si analizza l’incidenza percentuale delle tasse sul costo totale ci piazziamo al secondo posto(27,7%); solo la Germania (32,3%) presenta un’incidenza maggiore della nostra. Altro punto critico è, secondo la Cgia, il differenziale tra piccole e grandi imprese sui costi dell’elettricità: le Pmi pagano l’energia il 61% in più rispetto alle aziende di maggiori dimensioni, tanto che soltanto in Grecia (82,4%) si registra un gap più elevato del nostro.
 
Le cause del caro elettricità sono numerose: la Cgia punta il dito soprattutto contro la crescita del peso degli oneri generali di sistema, passati dai 4,7 miliardi di euro del 2009 agli 11,2 miliardi di euro del 2012. Si tratta di un incremento pari al +137%, spiegabile in buona misura con l’esplosione della componente A3 per la copertura degli schemi di incentivazione delle fonti elettriche rinnovabili. Oltre allo sviluppo in corso delle fonti pulite, gli italiani contribuiscono finanziariamente anche all’addio al nucleare: nel 2012, nonostante l’energia atomica sia stata abbandonata negli anni Ottanta, gli utenti italiani hanno pagato oltre 180 milioni di euro per la dismissione degli impianti e le compensazioni erogate agli enti locali che ospitavano questi siti. Quel che più interessa l’associazione di categoria è che l’impatto degli oneri generali di sistema non è uguale per tutti. Il decreto legislativo n. 79/99, infatti, prevede che per le attività ad alto consumo di energia, il carico degli oneri debba essere definito in misura inversamente proporzionale in rapporto ai maggiori consumi.

Questo determina, di fatto, che le grandi imprese o le società energivore contribuiscono in misura minore delle altre aziende o utenze. Nel 2011, ad esempio, le utenze in alta tensione (AT) o in altissima tensione (AAT) hanno “assorbito” il 14,8% dei consumi complessivi, ma hanno contribuito solamente per il 7,4% del gettito totale degli oneri di sistema. Ad appesantire ulteriormente la bolletta delle Pmi ci sono le spese extra per l’import di elettricità dall’estero: nonostante la sovraccapacità produttiva e l’utilizzo soltanto parziale degli impianti nazionali, il nostro Paese resta un importatore netto di energia elettrica, tanto che ogni anno acquista dall’estero circa il 13,7% del proprio fabbisogno. Infine, la Cgia lamenta l’assenza di effetti positivi sul lato prezzi del processo di liberalizzazione dell’energia elettrica, che ha avuto inizio nel 1999 per gli utenti non domestici.
 
“Grazie soprattutto alle piccole imprese – ha dichiarato Giuseppe Bortolussi segretario della Cgia – siamo, dopo la Germania, il secondo Paese manifatturiero d’Europa. Nonostante la crisi, le difficoltà e i problemi economici che ci assillano continuiamo a mantenere questa posizione e a rafforzarci sui mercati internazionali, sebbene i prezzi dell’energia siano i più elevati d’Europa. Ma per quanto tempo possiamo ancora resistere? Come è possibile che non si intervenga per ridurre i costi energetici a chi costituisce l’asse portante dell’economia del Paese ? Più in generale, come fa la Commissione europea ad accettare che in Europa la piccola impresa paghi l’energia elettrica mediamente il 40% in più delle grandi aziende se, tra il 2002 e il 2010, l’85% dei nuovi posti di lavoro in Ue sono stati creati dalle Pmi?“.

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