L’Adsl in Italia non è così diffusa. I dati del rapporto Caio

Il 12% della popolazione, 7,5 milioni di cittadini è in situazione di digital divide

Il settimanale Panorama è riuscito a entrare in possesso di una copia del rapporto Caio sullo stato della banda larga in Italia e ha scoperto che i dati sulla banda larga in Italia sono sovrastimati.


Il governo, così come aveva già fatto l’esecutivo britannico, ha dato incarico a Francesco Caio ex amministratore delegato Omnitel, poi imprenditore con Netscalibur e infine capo della britannica Cable & Wireless, di redigere una relazione sullo stato dell’Internet veloce lungo la Penisola.
Caio ha consegnato da qualche tempo il rapporto che non era però ancora uscito dalle segrete stanze di qualche ministero.


Obiettivo del governo era di capire il reale stato della situazione per approntare le opportune strategie che, stando a quanto scrive la relazione, dovranno tenere conto di una Adsl meno diffusa rispetto a quanto si pensava.


“Se calcolata sulla base della popolazione telefonica allacciata a centrali abilitate alla banda larga” scrive Caio “la copertura del servizio risulta superiore al 95 per cento” che dovrebbe salire al 97 alla fine del 2010. Il problema è che in molte zone d’Italia la “banda larga” viaggia ad appena 1 megabit, velocità troppo bassa per garantire l’Internet veloce con buona pace di cittadini e imprese.


Quindi Caio rifà i conti e afferma: “Eliminando le zone dove la copertura non è disponibile per problematiche tecniche o dove il servizio è solo marginale (banda minima inferiore a 1 Mb), la popolazione in digital divide sale al 12 per cento, pari a 7,5 milioni di cittadini”.

Per ovviare a questi problemi il consulente governativo suggerisce di scorporare la rete infrastrutturale di Telecom Italia e riguardo agli investimenti osserva che “i piani in essere non sembrano chiudere il gap tra la situazione attuale e un obiettivo di copertura universale in tempi ragionevolmente brevi”. Quindi, “in questo contesto un intervento di finanza pubblica sembra indispensabile per estendere la rete in aree in cui la bassa densità non giustifica l’investimento dei gestori”.

Secondo il dossier per assicurare una velocità minima
di 2 Mb per il 99 per cento della popolazione entro il 2011,
l’investimento necessario sarebbe di 1,2-1,3 miliardi di euro (700 milioni per sviluppare la rete fissa, 600 per quella mobile) se i lavori iniziassero entro giugno di quest’anno.
Cosa abbastanza improbabile.

Questo per quanto riguarda l’Adsl. Secondo Caio infatti i problemi aumentano quando si parla di fibra ottica. “La velocità di investimento osservata non appare sufficiente per assicurare al Paese una posizione di leadership internazionale”; “non sembrano esserci motivi perché i gestori accelerino i piani annunciati, e anzi la crisi economica rischia di rallentare domanda e investimenti”; “esiste il rischio di fare troppo affidamento sulla rete in rame i cui limiti strutturali verranno sicuramente testati nei prossimi anni”.

Il risultato è che, per quanto riguarda la qualità dell’infrastruttura, “l’Italia è tra i paesi alla rincorsa, tra gli ultimi posti in Europa” ed “è difficile vedere come Telecom possa decidere di accelerare i suoi piani razionalmente ispirati alla logica economico-finanziaria della prudente gestione”.

Anche perché da una parte i clienti non sembrano essere disposti a pagare di più per essere collegati con la fibra ottica, dall’altra la Telecom insegue “obiettivi di riduzione dell’indebitamento” ed è interessata “ad allungare la vita utile della rete in rame in presenza di una limitata concorrenza infrastrutturale tra gestori (recente accordo Fastweb-TelecomItalia per condividere l’infrastruttura di rete) e, infine, “nessun altro gestore ha annunciato piani di investimento in fibra”.
Tanto è vero che, fa notare il dossier, “nel 2008 Telecom Italia ha annunciato piani di investimento per lo sviluppo di una rete in fibra anche se i piani sono stati rivisti in riduzione per gli anni 2009 e 2010”.


Anche nel caso della fibra ottica occorre un poderoso piano
di investimenti pubblici che “non sarebbe una contribuzione a fondo perduto ma l’investimento in una infrastruttura essenziale la cui vita è utile per decenni”.

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