L’acquisizione

Ovvero, la guerra necessaria di una vita passata a difendersi.

30 settembre 2004 Perché una società ne acquista un’altra?
C’è
una sola risposta e varie chiavi di lettura.
La prima è che, una volta che
hai messo le mani su un’altra società ti senti più forte.
Le seconde
cominciano con il riconoscere che c’è un che di animalesco nel processo,
qualcosa che sa di affermazione dell’istinto predatorio che inevitabilmente
regola le cose umane, e quindi anche la vita d’impresa, essendo questa fatta da
uomini e per uomini.
Molto meglio, quindi, una schietta e chiara
acquisizione di un freddo, asettico, celato e coibentato trasferimento di flussi
di denaro da una ragione sociale a un’altra, come si usa in quelli che vengono
definiti, erroneamente, paradisi fiscali.
Erroneamente se si pensa
all’aberrante accostamento dei termini, quasi un ossimoro che farebbe rivoltare
l’Alighieri.
E noi, pur senza essere Benigni, apprezziamo l’insegnamento di
Dante, per cui proviamo ad attenerci alle cose sane.
Nel senso vernacolare
del termine: le cose intere.
Un’acquisizione, pertanto, rende più integro
chi la fa.
Anche se lascia sul campo, sia detto con il più alto rispetto
degli attuali tempi storici, “morti e feriti”.
Già: un’acquisizione non
passa mai innocua, come un’acqua oligominerale.
Provoca ottimizzazioni delle
strutture, alias dimensionamenti. Alias, meno posti di lavoro, almeno
inizialmente, per le funzioni lavorative cosiddette “orizzontali” alle due
aziende che si uniscono nel sacro vincolo del merger.
Eppure c’è un che di
epico nel procedere all’atto, tanto che le società si fanno forti non solo
dell’agire, ma anche dell’annunciare l’azione.
Nelle ultime settimane più
società, di ogni ordine e grado hanno parlato di se stesse in terza persona,
dicendo di voler procedere a un’acquisizione.
C’è, giusto a titolo di
esempio, chi ha ribadito di voler farlo (Oracle contro PeopleSoft), chi ha
annunciato quanto vorrebbe spendere, un miliardo di dollari, (Microsoft contro
ignoti), chi ha detto (Radware) che l’anno prossimo (sic) metterà le proprie
mani su una giovane realtà della sicurezza, con istinto da ratto delle Sabine.
L’acquisizione sembra una guerra necessaria, che bisogna sempre essere pronti a
combattere, magari anche utilizzando quei sottili metodi canonizzati da Von
Clausewitz, che attribuivano alle parole la forza dei cannoni.
L’uomo,
diceva, con il suo organismo imperfetto, resta al di sotto della linea
dell’ottimo ed è portato per propensione naturale e per circostanze, molto più a
sopravvalutare le forze dell’avversario che a fare il contrario.
Quindi si
difende e la superiorità della difesa è molto più grande di quanto si possa
pensare.
Soprattutto, perché la guerra è un mezzo.
L’intento politico è
il fine.
Quindi, l’acquisizione è sempre il mezzo per una politica di
difesa. Però, diciamolo pure con Amado, anche Teresa Batista era stanca di
guerra.
Proprio di quella guerra, simbolica, di una vita passata tutta a
difendersi.

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