Internet in orario di lavoro, cosa rischiano i dipendenti?

Navigazione a scopi personali? Dallo statuto dei lavoratori, alle direttive del Garante ecco gli strumenti da conoscere

luglio 2006 Una recente vicenda di cronaca proveniente dagli USA ci
fornisce lo spunto per tornare ad affrontare un argomento di forte attualità
anche in Italia. La notizia riguarda le vicissitudini di Toquir Choudri, un
dipendente del Dipartimento dell’educazione di New York, “scovato” dai superiori
a navigare in orario d’ufficio sul Web. Tale comportamento si sarebbe poi ripetuto
nonostante i divieti imposti dagli stessi. Infine, come accade sovente oltreoceano,
la disputa si è protratta fino a giungere in Tribunale, dove un Giudice non
troppo zelante con il dipendente avrebbe dato ragione proprio all’intrepido
navigatore.

La sentenza emessa stabilisce infatti che, per la natura dei siti Internet
visitati, ovverosia di informazione e di viaggio, la navigazione quotidiana
di Toquir equivaleva alla lettura di un quotidiano qualsiasi, pratica quest’ultima
tollerata in considerazione delle mansioni ricoperte dallo stesso all’interno
del Dipartimento. In definitiva, nel caso concreto, la giustizia statunitense
non ha considerato legittimo licenziare Toquir, il quale, al massimo, poteva
unicamente essere rimproverato dai propri superiori.

Questa sentenza, in un eventuale caso italiano, sarebbe così permissiva? Anche
gli italiani, infatti, si sono da tempo imbattuti in queste problematiche che,
di recente, hanno visto pronunciarsi anche il Garante della privacy con un provvedimento
del 2 febbraio 2006, che non ha mancato di sollevare interesse.

Nella sostanza, il Garante ha dato ragione a un dipendente che, vistosi contestare
una navigazione in Internet non autorizzata, ha a sua volta contestato il comportamento
del proprio datore di lavoro, a suo modo di vedere le cose “troppo invasivo”.

Il Garante non ha infatti riconosciuto legittimo il comportamento dello stesso
datore di lavoro che, in violazione dell’art. 145 del codice della privacy,
avrebbe indagato sul contenuto dei siti Internet visitati dal proprio dipendente,
spiegando infine, nella stessa pronuncia, che il datore di lavoro si sarebbe
dovuto limitare ad accertare gli indebiti accessi e non anche dove era solito
navigare l’incauto dipendente.

Tali informazioni riguardano infatti la sfera personale di un individuo, per
ciò stesso tutelata dalla legge. è doverosa tuttavia una precisazione. Nel caso
deciso dal Garante, infatti, il dipendente non aveva alcuna necessità di accedere
alla rete per svolgere le diverse mansioni a lui affidate. In altre parole,
visionare da parte del datore di lavoro il contenuto dei siti Internet visitati
si è dimostrato un comportamento non solo lesivo della privacy del lavoratore,
ma anche assolutamente superfluo per poterlo redarguire. Il dipendente non poteva
infatti navigare durante le ore di lavoro, indipendentemente dai siti visionati.

E se al contrario il dipendente in questione avesse avuto accesso alla rete,
quale strumento per poter espletare una parte o la totalità del proprio lavoro?
Come si sarebbe pronunciato ipoteticamente il Garante? In questo caso arriva
in soccorso lo statuto dei lavoratori che, all’art. 4, stabilisce il divieto
dei controlli a distanza degli stessi lavoratori. Divieto che risulta assoluto,
in merito all’uso “di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità
di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori”, ma che può essere superato
nel caso in cui gli impianti e le apparecchiature di controllo siano richiesti
da esigenze organizzative e produttive, ovvero dalla sicurezza del lavoro. In
questo secondo caso, tuttavia, tali impianti possono essere installati soltanto
previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali oppure, in mancanza
di queste, con la commissione interna.

Dalla lettura congiunta della norma da ultima citata e della pronuncia del
Garante si possono trarre alcune conclusioni.Alla domanda se sia legittimo o
meno che un datore di lavoro controlli gli accessi via Internet dei propri dipendenti,
dovremo dare necessiariamente una risposta articolata.

Innanzitutto possiamo dire che un datore di lavoro può, in ogni caso, legittimamente
compiere un’attività di monitoraggio degli accessi alla rete da parte dei propri
dipendenti. Tuttavia, a seconda dei casi, questo controllo potrà essere più
o meno approfondito.

Se un ipotetico dipendente accede alla rete utilizzando un computer aziendale,
senza che questo gli sia consentito o che gli risulti necessario per le specifiche
mansioni ricoperte, per essere trovato in “fallo” dal datore di lavoro dovrà
essere dimostrato che lo stesso navigava in rete, e non anche in quali siti
specifici navigava. Tale indagine si dimostrerebbe infatti non necessaria, oltre
che lesiva del diritto alla privacy del dipendente.

Nel caso contrario, in cui al dipendente l’accesso alla rete sia consentito
per ragioni di lavoro, si renderà necessario per il datore consultare anche
il contenuto specifico dei siti visitati, per verificare l’attinenza o meno
di tali contenuti con le mansioni del dipendente oggetto di indagine e, di conseguenza,
la sua eventuale infrazione. é evidente che in questo caso il controllo, per
risultare efficace, si dovrà spingere necessariamente a monitorare “dati sensibili”
del lavoratore in questione, come appunto i suoi gusti personali, eventuali
gusti sessuali e via dicendo.

Tuttavia, in ragione delle disposizioni contenute nello statuto dei lavoratori,
lo stesso datore di lavoro, per iniziare la propria attività di indagine, dovrà
preventivamente munirsi di un’autorizzazione concordata con le rappresentanze
sindacali aziendali oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna,
come dispone la legge.

*avvocato in Modena

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