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Intelligenza artificiale, come le aziende italiane possono far meglio

Forse mai come in quest’anno che sta per chiudersi l’intelligenza artificiale è stato un argomento capace di attirare l’attenzione di un pubblico vasto. Un anno da ricordare, ma con ampi margini di miglioramento, secondo quanto ci ha detto il presidente dell’Associazione Italiana per l’intelligenza artificiale (AIxIA) Piero Poccianti.

L’intelligenza artificiale ha saputo coinvolgere tutti, fornitori e utilizzatori di tecnologia, sicuramente sul piano della comunicazione, delle idee, del racconto delle possibilità.

Ma, ci chiediamo, al netto di quell’intelligenza artificiale cosiddetta mainstream, che utilizziamo a tratti inconsapevolmente, e che serve a far funzionare meglio device come smartphone o assistenti vocali, in termini concretamente progettuali, ossia sul piano delle iniziative di implementazione personalizzate nelle aziende, nell’industria, si è verificato lo stesso coinvolgimento?

Per Poccianti a livello sistemico in Italia sta cominciando a muoversi qualcosa, ma esistono ancora molte difficoltà, renitenze, inconcludenze.

Per inquadrare correttamente il fenomeno Poccianti invita ad articolare la riflessione su tre aree in cui oggi troviamo l’intelligenza artificiale: ricerca accademica, startup e mondo industriale.

Ricerca verso l’Europa

Per quanto riguarda il comparto della ricerca accademica, bisogna far squadra a livello europeo, «Perché l’Italia da sola può far poco» dice Poccianti.

Piero Poccianti Presidente di AIxIA

Il panorama italiano dell’intelligenza artificiale è fatto da luci e ombre: «abbiamo ricercatori anziani, che rimangono mentre i giovani vanno all’estero in cerca di maggiori opportunità. Ciononostante gli articoli per ricercatore sono tanti e a livello internazionale sono molto ben considerati». A livello di intelligenza artificiale accademica, quindi, possiamo dire di essere pochi ma buoni.

Il problema italiano è dato dal fatto che ci sono vari centri di eccellenza, ma nessuno esprime una politica unitaria nazionale.

Cos’è Claire

Claire (Confederation of Laboratories for Artificial Intelligence Research in Europe) è un network di ricercatori, laboratori ed associazioni scientifiche con obiettivi specifici. Punta a investire sulla ricerca di base con l’integrazione dei diversi paradigmi dell’AI; costituire un’infrastruttura Europea a sostegno di una rete di laboratori che supportino lo sviluppo di ricerca industriale anche nelle Pmi; promuovere lo studio interdisciplinare degli impatti sociali, economici e ambientali in modo da esaltare i benefici ed evitare effetti distopici.

A livello europeo si stanno formando iniziative sull’intelligenza artificiale, come Claire, un’organizzazione che emula quello che hanno fatto i fisici in Europa con centri di aggregazione della ricerca e laboratori che si mettono insieme e a cui AIxIA ha aderito per prima in Italia.

Durante il primo governo Conte l’Italia è stata la prima nazione a patrocinare Claire, con la firma della lettera di supporto dall’allora sottosegretario di stato al Mise, Andrea Cioffi.

 

Startup e aziende a caccia di investimenti

Secondo Poccianti le startup italiane che lavorano sull’intelligenza artificiale «sono di ottimo livello, ma risentono di una cronica scarsità di finanziamenti e quando riescono a mostrare il loro valore vengono acquisite, nella migliore delle ipotesi da aziende europee». Un esempio di startup che invece è rimasta in Italia che cita Poccianti è quello di Quest-IT di Siena.

Nata nel 2007 come spin-off dell’Università degli Studi di Siena e laboratorio tecnologico, Quest It, sviluppa tecnologie di machine learning, data mining, natural language processing, conversational agent e svolge attività di R&D nel settore dell’analisi semantica, con un particolare focus sul Question Answering. Nel 2016 è stata acquisita da The Digital Box, società pugliese operativa nel settore del Mobile Marketing & Advertising, a cui si è unite recentemente Exprivia.

I bassi investimenti sono comune denominatore anche per l’intelligenza artificiale nel mercato aziendale, a cui si aggiunge una sostanziale scarsità di progetti.

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Progetti Agile in azienda con i ricercatori

«Il problema – spiega Poccianti – è che per fare progetti di Intelligenza artificiale serve avere una mentalità aperta all’innovazione. Spesso le aziende italiane hanno una mentalità che le porta a non rischiare, intraprendono progetti che danno chiare garanzie di rendimento, mentre i progetti di IA per definizione non possono farlo».

Invece i progetti di Intelligenza artificiale, spiega Poccianti, «vanno affrontati con metodologia di tipo Agile, per step. In altro modo non si possono fare. Il problema delle aziende è convincere il Cda a farli. Del resto, quando si parla di IA non avere certezze fa parte del gioco».

E in ogni modo, qualunque sia l’esito, positivo o negativo del progetto, il primo step, «va inteso come formazione, ossia come acquisizione di competenze e know how». Quindi come un investimento sull’azienda, sul suo valore immateriale.

Intelligenza artificiale, il frastuono di fondo

C’è un’attenzione disarticolata si diceva, attorno all’Intelligenza artificiale. Se volessimo paragonarla a una musica, che la maggior parte degli ascoltatori non sanno interpretare, cantare o ballare, Poccianti la definirebbe come un “frastuono di fondo”. Motivandolo così: «le grandi aziende americane stanno creando aspettative superiori a quello che si può realmente compiere. E la creazione di messaggi fin troppo banalizzati crea una disillusione».

La musica, per proseguire con la nostra metafora, è a un volume troppo alto e dissonante. Un frastuono, appunto. «Quello che noi dobbiamo invece fare è chiarezza. Siamo in un momento in cui dobbiamo riconoscere i limiti dell’intelligenza artificiale, che è una scienza antica. I primi albori nascono nel 1943. Nel tempo abbiamo avuto grandi momenti di entusiasmo che si sono succeduti a grandi momenti di delusione. Inverni e primavere. Quello che è evidente è che nelle epoche precedenti abbiamo avuto successo nel creare macchine capaci di ragionare. Qualcuno insegnava a una macchina il contesto in cui muoversi e questa ragionava. Ciò ha portato a successi, ma il problema era insegnare, la macchina non era capace di percepire il contesto».

Oggi abbiamo macchine che imparano da sole a vedere, riconoscere pattern, ma quelle macchine non sono capaci di fare ragionamenti, di fare induzioni. «La ricerca sta imparando a mettere assieme percezione e ragionamento, con la speranza di arrivare a realizzare macchine che sappiano astrarre», spiega Poccianti.

Da utilizzare in quali ambiti? «Quello scientifico, dove l’astrazione è centrale, per fare ricerca. Ma anche nel campo automotive, come nel caso delle macchine a guida autonoma: se un veicolo fa un incidente dobbiamo poter domandargli perché è accaduto. Ancora, nell’ausilio alle professioni: macchine che aiutano un medico o un giudice a prendere delle decisioni».

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Intelligenza artificiale in azienda con i dottorati di ricerca

Alla luce di tutte queste considerazioni, che programma possiamo darci per portare l’intelligenza artificiale in azienda nel 2020?

Per Poccianti serve ritrovare, o generare, quel collegamento fra ricerca e industria che in Italia è carente: «La ricerca ha bisogno di capire i problemi del mondo industriale. E sono problemi che possono essere affrontati e risolti. L’industria ha bisogno di capire che deve formarsi, in modo da non cedere spazio agli equivoci e che deve conoscere i tanti strumenti che ha a disposizione. Oltre a ciò l’azienda deve anche cercare di capire gli obiettivi da porsi, deve chiedersi che cosa vuole».

Rimane la percezione diffusa che finanziare gli investimenti di ricerca in intelligenza artificiale sia costoso per un’azienda.

A tal proposito Poccianti ci illustra anche la possibilità di implementare collaborazioni tra mondo industriale e accademico, basate su lungo, medio e breve termine.

Quella a lungo termine, la ricerca di base, può essere finanziata solamente dallo Stato, perché non c’è un’idea del ritorno economico. Quella a medio fa riferimento a progetti che funzionano mediante collaborazioni stabili con università.

Quella a breve «serve alle aziende per fare un progetto concreto in un lasso di tempo che va da 6 mesi a un anno e mezzo. E per farlo l’industria può agire sulla leva dei dottorati di ricerca. Pagare un dottorato significa portarsi in casa un ricercatore che studia i problemi dentro l’azienda e trova una soluzione. Si tratta di ricerca applicata».

Agire in un quadro europeo

Se più aziende riescono a mettere in pratica il disegno proposto da Poccianti potrebbe cambiare la rotta dell’assetto internazionale, che vede la UE stretta nella morsa fra Usa e Cina, puntando su intelligenza artificiale per il benessere, etica, sostenibilità.

«L’alto ideale europeo – nota Poccianti – si innesta in un terreno fatto di gente impaurita da macchine che lavorano al posto delle persone. Il problema è che se noi innestiamo il modello che crea macchine che fanno il lavoro al posto delle persone in un mondo in cui le disuguaglianze crescono, è chiaro che nasca il timore che vengano usate per aumentare le disuguaglianze. È la crisi dell’economia tradizionale, che considera capitale e lavoro come risorse scarse e risorse ambientali infinite. Mentre ci siamo accorti che non è così».

Dobbiamo capire, secondo Poccianti, in che direzione andare «la scienza non è neutrale, punta dove viene finanziata a trovare soluzioni. Se gli indicatori di benessere sono diversi, come quelli ambientali l’intelligenza artificiale è lo strumento per andare nella direzione giusta».

Va fatta una riflessione politica. Vanno rimodulati i desideri, vanno stabiliti gli obiettivi.

«Non dimentichiamo – ammonisce Poccianti – che il 60% delle transazioni finanziarie sono fatte da macchine a cui non è stato detto di preservare le aziende, ma di massimizzare il capitarle di rischio, e nel farlo a volte uccidono le aziende».

1 COMMENTO

  1. Vorrei esprimere un po’ di contraddittorio se me lo permette.
    1) L’Università nel settore della Computer Science non rappresenta punte di eccellenza internazionali in quanto professori e studenti, per paura di essere esclusi dal loro ambiente di ricerca, producono poche idee originali e molto conformiste per poter beneficiare degli scarsi spazi che l ‘Università offre. Se devo leggere un paper originale leggo MIT, Standford , .. (cioè US) o Cina. Poi manchiamo di una rete di meet-up e di iniziative personali per creare ecosistema.
    2) L’industria italiana è sempre stata asfittica per ciò che attiene l’IT e l’abbandono attuale di molte agezie di vendita di multinazionali è il corollario di una gestione ottusa ed ideologica della nostra economia. Spazio per IA nelle PMI non ci sarà perché fuori da ogni ecosistema IT e perchè il managent è ottocentesco (non leader ma dirigenti).
    3) Il fenomeno perggiore sono i trend economici negativi. La economia italia è strettamente legata per colpa della nostra ottusa classe dirigente alla economia tedesca. Se la prima va in crisi la seconda avrà un disastro.
    Summary: l’IA ha bisogno di insegnanti che sappiano essere creativi e che spingano i giovani verso sfide “impossibili” . L’Università oltre ai soliti corsi dovrebbe essere un vortice di iniziative per affrontare il futuro che avanza. Non è questione solo di denaro!

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