Innovazione tecnologica. L’altra faccia dello skill shortage

In Italia si evidenzia il progressivo disinteresse, da parte di aziende ed enti pubblici, verso la R&D. Questo pericoloso atteggiamento, come denuncia Maurizio Dècina, presidente del Cefriel, compromette la capacità di competere del Sistema Paese e penalizza l’occupazione.

 


Di skill shortage e skill gap se n’è discusso a sufficienza in queste pagine. Oltre ai vari problemi evidenziati, oggi il quadro descrive anche il declino europeo sul fronte dell’innovazione. Uno degli aspetti più significativi nello sviluppo di un Paese, infatti, sta nella sua capacità di innovare, cioè di incorporare rapidamente nuove competenze e tecnologie, aumentando produttività, competitività e occupazione, innescando un’evoluzione nella qualità sociale dei prodotti e dei processi realizzati e in via di realizzazione. Conoscenza e innovazione, dunque, costituiscono il binomio di una strategia della ripresa, impensabile senza il supporto di una robusta attività di ricerca. Il percorso intrapreso dalla Ue nel marzo del 2000 prevede la costruzione di una società basata sulla conoscenza al fine di attivare un’economia competitiva e dinamica, alimentata da una continua innovazione tecnologica perché non esiste conoscenza senza ricerca.


Nel Sesto Programma Quadro si parla della creazione di un Sistema europeo della ricerca, agendo sull’armonizzazione delle tematiche e degli investimenti in R&D, sulla cooperazione tra imprese ed enti di ricerca europei, e sulla mobilità dei ricercatori nel territorio dell’Unione. Sviluppare una strategia italiana della ricerca, che sappia raccordarsi con quanto fatto a livello comunitario diventa un asset prioritario e comporta un forte riorientamento di alcune filosofie di fondo. Secondo gli esperti, è necessario agire sulla cultura del finanziamento a pioggia, va posto un argine alla scarsa propensione a iniziative miste di finanziamenti pubblici e privati in cooperazione, devono essere introdotti criteri valutativi delle iniziative proposte coinvolgendo realtà e istituzioni locali.


A questo proposito, l’Associazione Futura di Milano (www.assofutura.it) ha elaborato un white paper intitolato "Sistema della ricerca pubblica, della formazione universitaria e dell’innovazione industriale" a cura di Emilio Bartezzaghi, direttore Mip Politecnico di Milano, Mario Benassi, professore di economia Università di Milano, Maurizio Dècina e Alfonso Fuggetta, rispettivamente presidente e direttore Cefriel, Carlo Ghezzi professore del Politecnico di Milano e Guido Vannucchi, ex direttore generale Telettra e vicedirettore generale Rai. I temi della ricerca pubblica, della formazione universitaria e dell’innovazione industriale, secondo Dècina, concorrono, in un intreccio organico e virtuoso, a definire la capacità d’innovazione di un Sistema Paese nel suo complesso. Di fatto, l’Italia a partire dal 1990, ha costantemente peggiorato in percentuale del Pil la spesa in R&D e gli altri indici correlati, attestandosi oggi su valori che sono la metà della media dei paesi europei più industrializzati (1% contro il 2,5%). Sensibile è stato anche il calo delle risorse dedicate all’innovazione industriale per spese in R&D, con conseguente calo dell’occupazione nei settori avanzati e una sempre minor presenza dell’Italia sul panorama internazionale. "Per miopia o incapacità - prosegue Dècina -, in Italia si è fatta confusione tra innovazione industriale e innovazione nei servizi, ritenendo che lo spazio e le novità di marketing introdotte in nuovi segmenti avrebbero potuto di per sé costituire un’interessante politica d’innovazione. Il risultato, come nel caso delle reti mobili, è stato quello di aprire il bacino di consumo italiano a prodotti concepiti e costruiti in altri Paesi, come i telefoni o le tecnologie cellulari finlandesi e svedesi, senza che ci sia stato un reale tentativo di sviluppo di un’adeguata industria interna in grado di godere delle notevoli dimensioni del mercato nazionale">.

Opportunità perse


In sintesi, le aziende italiane si sono limitate a presidiare la fornitura dei servizi, riducendo nei fatti la competitività del sistema d’innovazione industriale del Paese nello scenario internazionale, perdendo opportunità d’incremento dell’occupazione. Inoltre, per quanto riguarda gli indirizzi di ristrutturazione della ricerca pubblica, poco è stato fatto negli ultimi anni, mentre il progressivo processo d’indebolimento della presenza italiana nei settori ad alta tecnologia ha contribuito a diminuire in modo significativo le risorse spese in R&D dalle industrie private nazionali e multinazionali presenti nel nostro Paese.


Cosa fare, dunque? Da un lato, finalizzare e gestire in maniera efficiente i finanziamenti e, dall’altro, riorganizzare gli enti di ricerca per migliorarne la produttività e competitività, riorganizzando su scala nazionale i processi di formazione attraverso la cooperazione tra istituti scolastici e il mondo dell’impresa. Nonostante la vivacità e la flessibilità delle Pmi e dei distretti italiani, si rileva sempre più la grave mancanza d’imprese italiane di dimensioni medio-grandi, in grado d’investire in innovazione e ricerca e affrontare la sfida dei mercati internazionali in settori particolarmente critici quali l’Ict; in generale, contingenza e ristagno limitano la capacità economica delle imprese strozzandone l’attività e innescando un circolo vizioso di stasi che porta a un’ulteriore contrazione. "La qualità dell’innovazione è legata a diversi fattori - sottolinea Dècina - la definizione di una strategia coerente dei processi d’innovazione; la creazione di meccanismi efficaci di regia delle iniziative messe in campo per perseguire gli obiettivi strategici definiti; l’oculata e selettiva allocazione delle risorse economiche e umane. È necessario che queste trasformazioni radicali siano realizzate rapidamente perché i tempi non ci consentiranno di rimanere in attesa, anche se non è vero pensare che in Italia abbiamo ormai "perso tutti i treni" per cui è preferibile non spendere". A questo proposito, vale la pena di menzionare l’esempio di St Microelectronics che ha costantemente e tenacemente investito in R&D ottenendo, negli ultimi anni, il risultato di raggiungere il terzo posto mondiale nel settore della microelettronica. "Bisogna creare nel Sistema Italia una cultura dell’innovazione - conclude Dècina -. Il problema è di priorità: bisognerebbe mettere una tassa per finanziare la ricerca e attivare uno sforzo di trasformazione culturale. La situazione non consente che s’investa in maniera indiscriminata in tutti i settori, ma occorre fare alcune selezioni fondamentali e mettere in grado di competere seriamente a livello internazionale i settori sui quali si punta per un rilancio del Paese".

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome