Il pianeta moda riscopre il consumatore di fascia media

Nel 2009 il giro d’affari dell’abbigliamento nazionale ha segnato un -1,8%; la crisi ha colpito anche l’alto di gamma

Dopo la crisi il mondo non sarà più lo stesso e anche il pianeta dell’abbigliamento non si limiterà a un semplice cambio di look. È quanto è emerso dal convegno “Fashion retail: modelli distributivi ed evoluzioni”, organizzato da Sistema moda Italia (Smi). La recessione, come noto, non ha risparmiato l’ultimo anello della filiera del settore tessile-moda: la contrazione del fatturato del settore nella Ue a 27 (fonte Sita Ricerca) nel 2009 è stata del 2,3%, dopo una serie di anni positivi. L’Italia ha fatto un po’ meno peggio (-1,8 % a spesa costante), ma in realtà il nostro paese è reduce da 14 anni di riduzione della quota di budget destinata dai consumatori all’acquisto di capi di vestiario, anche se la percentuale rimane comunque più elevata rispetto alla media europea (6,6% contro 4,4%).

La rinuncia dei consumatori aspirazionali
Il dato complessivo italiano, inoltre, non dipinge a sufficienza una realtà che per alcuni comparti è stata particolarmente pesante, come ad esempio per il vestiario uomo, che negli ultimi 2 anni ha visto diminuire i suoi volumi di acquisto di quasi il 10%. «È difficile pensare che nei prossimi anni i consumatori italiani torneranno a un livello di consumi come quello degli anni passati – ha spiegato Fabio Savelli, direttore generale Sita Ricerca -. Anzi è probabile che i numeri resteranno negativi anche nella primavera-estate 2010, mentre gli operatori dovranno fare i conti con margini molto più ristretti rispetto al passato». La crisi ha infatti costretto le persone a fare i conti con il portafoglio: negli ultimi 2 anni anche la fascia alta della moda, sinora immune alle turbolenze del mercato, ha accusato una flessione nelle vendite. I consumatori cosiddetti aspirazionali – ovvero giovani, liberi professionisti, quelli che insomma hanno subìto di più la crisi – hanno ridotto i loro acquisti “importanti” di capi di vestiario, magari scegliendo più articoli di fascia media. Proprio quest’ultima, dopo il de profundis celebrato negli scorsi anni (quando si immaginava un mercato polarizzato tra alto e basso di gamma) ha guadagnato quote di mercato e sta diventando il nuovo orizzonte per i retailer.

L’italian low cost
«Benetton ha lanciato giustamente l’idea del lusso democratico, dell’italian low cost di qualità rivolto alla classe media – ha spiegato Giulio Di Sabato, presidente di Assomoda -. D’altronde anche nei paesi emergenti, già oggi in ripresa, ci sono centinaia di milioni di persone che potrebbero essere interessate a un prodotto così concepito: soltanto in Cina si stima che entro nel prossimo quindicennio 296 milioni di persone entreranno a far parte della classe media». «I prodotti devono avere un giusto rapporto qualità-prezzo – ha aggiunto Flaminio Soncini, presidente onorario Camera buyer moda -. Le griffe dovrebbero capire che certi guadagni sul prezzo oggi non si possono più avere».

La crisi dei multimarca
Molto è cambiato anche dal punto di vista del modello di retail dominante: la formula dei negozi indipendenti multimarca, ormai, assorbe soltanto il 34,3% del valore della distribuzione di abbigliamento italiana (-3% rispetto al 2007), in linea con una tendenza in atto nei principali mercati dell’Europa occidentale. I dettaglianti italiani si difendono ancora bene in alcuni settori (vedi vestiario maschile) mentre accusano cali a doppia cifra nella moda femminile, a causa della concorrenza spietata del modello fast fashion stile Zara e H&M.

Crescono outlet e temporary store
«Il problema dei negozi indipendenti è che non comunicano con il consumatore, mentre nomi come Oviesse e Zara lo fanno in continuazione – ha riassunto il presidente di Trade Lab, Luca Pellegrini -. Il posizionamento è poi spesso incerto, perché le piccole insegne cercano di attirare tutte le tipologie di clienti possibili e rischiano così di non essere né carne né pesce». I tradizionali multimarca, insomma, si trovano sempre più schiacciati da un lato dal fast fashion e dall’altro dalle insegne delle grandi griffe (comparse in Italia soltanto una decina di anni fa). Queste ultime, a loro volta, devono guardarsi le spalle dalla concorrenza degli outlet e dei temporary store, che iniziano a registrare numeri rilevanti (oltre il 3% del valore della distribuzione) e saranno ulteriormente favoriti dai trend del post crisi. In netto affanno, infine, le vendite di abbigliamento nella Gdo, a cui i consumatori preferiscono sempre di più il maggior appeal e i prezzi ugualmente contenuti della formula fast fashion.

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