IDC – L’impresa deve diventare una “learning firm”

Se l’economia italiana è in ripresa, molto del merito va alle imprese che hanno saputo riorganizzarsi e rilanciarsi sul mercato internazionale battendo anche la sfida di India e Cina. E la chiave del successo di queste imprese sta nella co …


Se
l’economia italiana è in ripresa, molto del merito va alle imprese
che hanno saputo riorganizzarsi e rilanciarsi sul mercato internazionale battendo
anche la sfida di India e Cina. E la chiave del successo di queste imprese sta
nella combinazione di tre fattori:

  • investimento in ricerca e innovazione tecnologica,
  • investimento nell’innovazione di prodotto e processo,
  • investimento in Ict.

Diverse analisi sui distretti industriali italiani hanno evidenziato chiaramente
la diversa performance delle imprese che hanno colto la sfida della globalizzazione
e si sono messe a correre e quelle che stanno inevitabilmente perdendo terreno.
In particolare le imprese vincenti hanno ad esempio saputo negli ultimi anni
inserirsi nelle supply chain mondiali ridisegnate dalla globalizzazione, attraverso
una coerente strategia basata sull’innovazione a tutti i livelli, dove
l’investimento in tecnologie dell’informazione (particolarmente
sistemi Erp e network technology) è un elemento indispensabile.

Anche in Italia quindi la comprensione del ruolo fondamentale dell’innovazione
nelle strategie aziendali si sta facendo finalmente strada. Ma cosa significa
per un’impresa dirsi effettivamente innovativa? La semplice capacità
di introdurre innovazioni di prodotto, che le imprese italiane hanno spesso
saputo dominare, non è più sufficiente.

Secondo le analisi dell’Ocse, si può identificare una scala crescente
della capacità innovativa delle imprese a seconda anche delle condizioni
di mercato. In mercati stabili o maturi l’impresa può essere statica,
con un ruolo marginale dell’innovazione (tipologia ormai quasi scomparsa).
A fronte di una forte concorrenza l’impresa deve essere innovativa, cioè
saper gestire processi di innovazione di prodotto e processo in maniera efficiente
ed efficace, tenendo il passo con l’evoluzione del mercato (e questa era
la situazione più frequente fino a pochi anni fa).

Ma quando la turbolenza del mercato sale di livello la capacità innovativa
dell’impresa deve fare un salto di qualità: diventare una “learning
firm”, cioè un’impresa capace di adattarsi rapidamente al
cambiamento delle condizioni del mercato nello stesso tempo in cui innova prodotti
e servizi. Il livello più sofisticato di capacità innovativa è
quello della “self-learning firm”, capace di reinventare se stessa
e il suo mercato (triple-loop learning) continuando a rinnovare i suoi processi,
il suo rapporto con i clienti, oltre ai suoi prodotti.

Ma porre l’innovazione alla base di tutte le attività aziendali
richiede fatica, intelligenza e costante vigilanza contro le tentazioni della
routine: per questo è convinzione sempre più diffusa che sia necessario
designare un “campione dell’innovazione” nel top management.

Ma un Chief Innovation Officer è sempre veramente indispensabile? Le
aziende italiane sono pronte ad introdurre nella propria organizzazione questa
figura? Non sono domande che hanno delle risposte scontate o sempre prevedibili.

Veniamo alla prima sull’importanza e indispensabilità di un Chief
Innovation Officer. Esistono a tal proposito due modelli e correnti di pensiero:
uno che prevede la figura di un Chief Innovation Officer, in genere un Executive
Vice President con la responsabilità di sviluppare e coordinare l’attività
innovativa dell’azienda; l’altra che ritiene sia più efficace
delegare questa responsabilità alle diverse linee di business interne.

Un modello non deve necessariamente predominare sull’altro in quanto
l’approccio più vantaggioso dipende anche da fattori quali la tipologia
settoriale e produttiva e dalla cultura aziendale. Ad esempio in aziende ad
alta tecnologia o che sviluppano nuovi materiali (come ad esempio Amd e Dupont),
dove predomina l’innovazione di prodotto, si è deciso di delegare
ad un Evp il ruolo di Chief Innovation Officer.

Non sempre questo è il caso: nelle aziende con una maggiore diversificazione
produttiva e con una tipologia di produzione più tradizionale (come potrebbe
essere il caso di alcuni settori del made in Italy) allora diventa più
importante sviluppare una maggiore flessibilità organizzativa al fine
di adattarsi alle mutevoli condizioni di mercato e di competizione internazionale
rinnovando processi produttivi e distributivi. In questi casi il candidato naturale
a diventare il Chief Innovation Officer può essere proprio il Chief Information
Officer (Cio).

Anche nelle aziende service oriented come quelle dei servizi privati e pubblici
(banche, pubblica amministrazione, ecc.), il Cio può assumere un ruolo
sempre più rilevante nel proporre e supportare una efficiente innovazione
dei servizi e dei processi aziendali. Per poter svolgere questo ruolo deve però
poter disporre di un sistema informativo flessibile ed efficiente, in grado
di proporre soluzioni applicative e tecnologiche per creare il valore del business
di domani e guidare l’innovazione dando forte impulso alla crescita.

Le aziende italiane sono pronte a questi cambiamenti organizzativi e alla
presenza di un Chief Innovation Officer? Anche questa domanda non è di
semplice e immediata risposta, anche perché il nostro sistema economico
e industriale è molto diversificato e orientato anche alla presenza di
sistemi territoriali di piccole e medie imprese.

Comunque si può affermare che le grandi imprese ad alta tecnologia
(elettroniche, alcune imprese meccaniche ad esempio delle macchine utensili
o aereospaziali, farmaceutiche, ecc.) siano pronte per avere un Chief Innovation
Officer che sviluppi e coordini la capacità innovativa di tutta l’azienda
sia coordinando l’attività di innovazione dei prodotti che sviluppando
strategie di innovazione organizzativa e sui processi aziendali; dipende solo
dalla strategia lungimirante del top management aziendale.

Nelle altre grandi aziende dove il Cio avrebbe potuto giocare un ruolo di
primo piano nel proporre soluzioni innovative, questi non sempre si è
dimostrato pronto perchè troppo spesso arroccato sul mantenimento di
un sistema informativo arcaico e inefficiente. Chi invece ha lavorato negli
ultimi anni ad una riorganizzazione flessibile e dinamica del proprio sistema
informativo ha sicuramente sviluppato una capacità di relazione con il
top management ed è riconosciuto sempre più come il Chief Innovation
Officer dei processi organizzativi aziendali.

Le medie imprese italiane sono quelle che negli ultimi anni hanno dimostrato
maggiore capacità di crescita e di innovazione soprattutto produttiva
e di processo (ma non solo). E qui il ruolo del Cio è stato spesse volte
determinante nel supportare le strategie di internazionalizzazione e di presidio
dei mercati nazionali ed esteri.

In conclusione il Cio ha oggi l’opportunità di essere un punto
di riferimento importante non solo per supportare l’innovazione aziendale
ma anche per diventarne parte attiva. E questo è un elemento che dipende
soprattutto da un cambiamento delle strategie aziendali; molte aziende italiane
hanno cominciato o ci stanno pensando. Troppe ancora no.

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