I clienti non hanno ancora comprato tutto quello di cui avevano bisogno

Tra disfattismo e attendismo si fanno strada nuove teorie economiche, che aprono le prospettive per il mercato It, purché gli attori in gioco siano disposti a cambiare i loro paradigmi operativi

11 settembre 2003 E se gli utenti avessero già comprato tutto quello di cui avevano bisogno?
I clienti, si usa dire, hanno bisogno di soluzioni, ma forse è il mercato che oggi ha bisogno di una soluzione che gli consenta di uscire da questa situazione di stallo.
E’ ormai chiaro che nuove tecnologie, prodotti o modelli di business non bastano a ridare fiato alla domanda, ed è altrettanto chiaro che oltre alle ben note ristrettezze di budget i clienti covano uno scetticismo strisciante che scoraggia gli investimenti informatici.
Perché?
Facciamo un passio indietro. Già a inizio anno, tastando il polso agli It manager, si capiva che i grandi progetti sarebbero stati accantonati in attesa di tempi migliori e che l’obiettivo per il breve e medio periodo era quello di sfruttare adeguatamente tutti mezzi a disposizione.
Si era speso tanto tra il 1999 e il 2000 e magari c’era rimasto spazio per una “coda” di investimenti anche nel 2001.
Da quel momento in avanti le ragioni cui un It manager poteva appellarsi nei confronti del top management per intervenire sui sistemi si sono via via indebolite, sia per le ragioni di budget che affliggono la stragrande maggioranza delle imprese, sia, e questo è molto più grave, per ragioni di strategia.
In altre parole il management delle grandi imprese dichiara di non investire perché non ci sono soldi, ma aggiunge anche che se ci fossero non li indirizzerebbero verso l’It.
Le ragioni che vengono addotte devono far riflettere: l’area dell’It è già stata irrorata da generosi investimenti che ancora non hanno mantenuto le promesse in termini di Roi (Return of investment); e poi per investire c’è bisogno di argomentazioni convincenti e di una visione: della propria azienda, del mercato nel quale opera e delle tecnologie che possono farle fare un salto di qualità.
E’ questa prospettiva che oggi sta venendo meno.
Al suo posto anzi è sorta e si è radicata la convinzione che sia oggi più urgente e importante far rendere gli investimenti effettuati. Perché è sempre più diffusa la convinzione che l’innovazione tecnologica sia largamente sottoutilizzata. Ed è vero: sia per ragioni di settaggio tra It e organizzazione aziendale, sia per la cronica scarsità di formazione che come una palla al piede rallenta il trasferimento di valore tra It e imprese.
Queste perplessità di fondo si nutrono poi dello scetticismo che da sempre accompagna la misurazione del risultato dell’investimento It. Non è un caso che si torni a parlare del Paradosso di Solow, l’economista, premio Nobel per l’economia nel 1987, aveva voluto dimostrare l’assunto che: si possono vedere i vantaggi dell’It ovunque eccetto che nelle statistiche di produttività.
E non nasce dal caso il consenso raccolto da Nicholas Carr, un altro economista che ha puntato l’indice contro i rischi dell’innovazione asserendo che i problemi dell’It siano da addebitare nella propensione dell’It di andare oltre i bisogni delle imprese.
Che certi traguardi raggiunti dalla tecnologia hanno, paradossalmente, allontanato gli utenti dalla soluzione dei loro bisogni.
Come se si cercassero prima le soluzioni tecnologiche e poi i problemi che dovrebbero risolvere.
Carr ne conclude che il vero vantaggio competitivo può venire solo da un mix tra la tecnologia e l’uso che ne viene fatto, raccomanda prudenza e invita a non lasciare che il fascino e la seduzione dell’innovazione possa influenzare gli investimenti It. E aggiunge pure che chi ha saputo trarre il massimo vantaggio dagli investimenti It sono quelle aziende che prima di tutto hanno investito nell’organizzazione e nella formazione.
Ma non ci sono solo gli scettici.
Per fortuna c’è anche chi crede ancora che l’It possa rappresentare un vantaggio competitivo efficace e soprattutto misurabile.
I rappresentanti più qualificati di queste tesi sono due professori americani: Erik Brynjolfsson e Lorin Hitt che con una ricerca basata sull’analisi degli investimenti It di 527 grandi imprese statunitensi hanno dimostrato che l’impatto dell’It sulla produttività industriale non è una chimera, c’è eccome e si può misurare, ma ci vuole pazienza.
I risultati infatti si vedono dopo cinque-sette anni e comunque arrivano solo se l’investimento in tecnologie viene seguito e rinforzato da investimenti in business process, organizzazione aziendale, innovazione nelle relazioni con fornitori, clienti e dipendenti. E’ l’ Organization Capital che supera, come investimento la spesa diretta in It e che può, secondo Brynjolfsson ed Hitt, consentire alle tecnologie informatiche di spingere la produttività di una impresa, nel lungo periodo, sino a quintuplicare i valori esprimibili nel breve.
Secondo questa tesi la crescita di produttività registrata nel 2002 è figlia degli investimenti in tecnologie effettuati nel corso del 1996 e 1997.
In teoria nel 2005-2006 la produttività dovrebbe fare un consistente balzo in avanti in ragione dei cospicui investimenti It trascinati da Anno 2000, Euro e Net Economy, ma solo se nel frattempo imprese, enti e istituti avranno investito anche in quell’Organization Capital che crea il contesto adeguato affinche l’It possa esprimere tutto il suo potenziale di innovazione sui processi e sui “numeri” delle imprese.
Qualunque sia la tesi più convincente emerge con forza che se è vero che i clienti non hanno ancora acquistato tutto ciò di cui avevano bisogno è anche vero che l’innovazione tecnologica, da sola, non basta più per convincere le aziende a investire. I clienti ne hanno abbastanza di presentazioni sui prodotti e sulle tecnologie, i loro problemi sono altri.
Se nel passato il trade è stata una fonte preziosa e insostituibile per l’aggiornamento, occorre ridare sostanza a questo ruolo spostando il paradigma della formazione dal tema delle performance tecnologiche dei prodotti al contesto dell’impresa dove vengono introdotte le tecnologie.

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