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Dalla carta stampata a Internet

Il gigantismo è il problema della stampa contemporanea, scriveva Giorgio Bocca. Il gigantismo di notizie, numeri, catastrofi, miracoli, facilonerie e infine di profitti, la vera iattura della carta stampata, l’imperativo che, preconizzava il giornalista piemontese seguendo le previsioni dei giganteschi opinionisti del New York Times, porterà alla scomparsa della maniera tradizionale di trattare le notizie grazie al web e al suo sistema compulsivo di informare con troppe opinioni opinabili e poche inchieste degne di nota. Ma il sistema tradizionale è duro a morire e continua a centrare il bersaglio tirando colpi magistrali almeno in Tv come l’inchiesta costruita di recente dalla trasmissione Report sulla gestione dei finanziamenti ai partiti, un’indagine giornalistica che probabilmente sarà annoverata come uno degli esempi meglio riusciti di integrazione tra competenza, lavoro di equipe e tempismo politico. Tutto questo a dimostrazione del fatto che i media legati a piattaforme tradizionali racchiudono un ampio potenziale ancora indiscutibile.

Bocca nutriva poca fiducia nel potere rivoluzionario di Internet e ragionava in termini di contrapposizione piuttosto che di cooperazione tra media tradizionali e web ma certo non sbagliava nel ritenere che il sistema editoriale dei quotidiani, ingolfato di freelance, collaboratori, redattori ai quali garantire pensioni e assistenza sanitaria, sarebbe scoppiato come la bolla finanziaria in America. Bocca scriveva nel 2008, l’anno peggiore nella storia del più influente quotidiano al mondo, il New York Times: il suo bilancio fu chiuso con una perdita di 57 milioni di dollari e le obbligazioni della società che edita il quotidiano erano definite semplicemente “spazzatura” allontanando per legge tutti i risparmiatori istituzionali.
“Mi è sempre sembrato pazzesco il fatto di essere finito a lavorare per il New York Times. Non pensavo di essere destinato a essere il migliore uomo di sempre del Times. Semplicemente non volevo mandare tutto all’aria. Sarebbe stato troppo triste relegare quel giornale nelle retrovie, il Times non ha bisogno di essere un monolito per sopravvivere”. Queste le ultime battute pronunciate dal giornalista David Carr in chiusura di Page One: dentro il New York Times il film documentario da poco distribuito in Italia che lo vede tra i protagonisti.

56 anni, ruvido, laconico e disincantato, scavato in volto, il capo reclinato in avanti a causa di un’artrite che non perdona, Carr è materia organica connessa 24 ore al giorno alla Rete. Con un’attitudine da reporter di MaximumRocknroll si è dimostrato una delle carte vincenti della testata nel momento delicato della sua difficilissima risalita, il 2010. Con una dieta da far impallidire, che ha imposto il taglio di 650 posti di lavoro e la vendita parziale del palazzo sede del quotidiano realizzato da Renzo Piano, il giornale si è rimesso in piedi cagionevole ma molto reattivo nonostante la disaffezione dei lettori alla carta stampata, la migrazione delle inserzioni pubblicitarie sul web e il ricorso agli aiuti finanziari del miliardario messicano Carlos Slim restituiti con un tasso d’interesse pari al 14%.

Un nuovo approccio al giornalismo
Responsabile della fortunata rubrica su media e cultura del quotidiano americano insieme a un manipolo di colleghi pionieri della transizione al digitale, Carr è tra i sostenitori di un nuovo approccio al giornalismo su carta grazie all’intuizione semplice ma geniale per cui il quotidiano tradizionale oggi non è più l’unica piattaforma che intercetta e diffonde la notizia, ma il tramite che veicola il flusso di opinioni e osservazioni legate a una notizia che è giunta al lettore prima ancora che le rotative venissero messe in azione, secondo un meccanismo di integrazione via via sempre più complesso. Un processo che gli anglosassoni indicano come il passaggio dal newspaper al news brand. Tutta la storia del New York Times scritta in questi ultimi anni potrebbe essere riassunta dal punto di vista metodologico proprio nel modo appena descritto.

Quella del quotidiano americano è una storia esemplare comune a molte testate nel mondo, negli Stati Uniti come in Italia. Il fenomeno dell’emorragia di lettori secondo alcuni osservatori è da mettere in relazione anche con la diminuzione della credibilità dei giornali e la conseguente diaspora dei lettori verso il digitale. Insieme ai lettori anche i giornali hanno cominciato a migrare verso Internet. Il passaggio dei quotidiani alla versione web però non ha garantito l’automatismo dei lettori verso il brand online. Calcoli alla mano gli operatori ritengono che siano necessari dai 10 ai 15 lettori sul supporto digitale per compensare la perdita di ogni lettore sulla carta. Così una formula vincente in grado di recuperare i profitti per i giornali sempre più ipnotizzati da soluzioni temporanee è ancora lontana.

L’ultima edizione del Festival di Internazionale, il settimanale che traduce in italiano una vasta rassegna stampa proveniente da tutto il mondo, tenuta a ottobre a Ferrara, è stata l’occasione per un ripasso sullo stato delle cose. I due giganti della carta stampata in lingua inglese, il New York Times e il Guardian rappresentati da Carr e Alan Rusbridger, il direttore della testata inglese, hanno dichiarato apertamente di navigare tuttora nel pieno della bufera anche se con ottime coperture. Anzi nel caso del Guardian il periodo è addirittura florido visto che la testata è al nono posto seguita di poco dal NYT per numero di accessi online anche sullo stesso territorio americano. I due giornalisti hanno disputato un agone grondante un magistrale fairplay incentrato sulla crisi della carta stampata e su tutto ciò che ne consegue in termini culturali ed economici. Rusbridger ha osservato che la stampa tradizionale è stata investita negli ultimi anni da un vero e proprio tsunami. Il successo negli Stati Uniti del Guardian, al cui consiglio di amministrazione siede egli stesso, è dipeso dal fatto che molte testate americane sono diventate più colloquiali, concentrate sulle notizie che hanno importanza per il singolo, che incidono sulla vita dei singoli cittadini in maniera diretta e specifica, perdendo di vista una visione globale delle cose, cosa che Rusbridger rivendica con orgoglio per il Guardian.

Dalla fine del 2010 il New York Times, in seguito alle gigantesche perdite simili a quelle subite dal Guardian, per far fronte alla crisi è passato a un modello ibrido di pagamento, il freemium, secondo il quale il lettore ha accesso gratuito a un certo numero di articoli sul sito, poi per continuare a leggere deve abbonarsi. Nel giro di un anno il quotidiano americano ha incrementato il numero degli abbonamenti digitali di circa 450mila unità. Il Guardian ha affrontato il problema adottando invece un’altra strategia, quella dell’open journalism. Il criterio è totalmente calato nella rete di informazioni offerte dal web, sfrutta le relazioni con i lettori comuni e così seguendo più da vicino il flusso degli eventi opera un giornalismo più efficace senza far pagare i contenuti.
L’appuntamento di Ferrara è stato propizio per avvicinare David Carr, di solito restio alle interviste, e che a differenza del suo collega inglese non sembra troppo interessato a gareggiare verbalmente sotto i riflettori di un festival molto radical.

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